Calcio

Franco Baresi, l’albatros rossonero

8 Maggio 2013

Credo che tra ogni appassionato di sport e il suo sport preferito ci sia di mezzo uno sportivo. Uno in particolare. Immagino che molti di coloro che amano la MotoGp la amino grazie a Valentino Rossi. Sul rapporto fra Michael Jordan e il basket Nba si è scritto molto (è addirittura diventato un serio problema economico per la lega professionista e la Nike, quando MJ si è ritirato). Marco Pantani, almeno fino a un certo punto, ha certamente portato gli italiani ad appassionarsi al ciclismo con un’universalità che non si vedeva da molti anni. Si potrebbe continuare a lungo.

Per me il calcio è Franco Baresi. Per numerose ragioni, che oggi – giorno del suo compleanno – provo a mettere in ordine.

Franco Baresi

Sarebbe facile dire che Baresi è il miglior difensore della storia del calcio italiano (ok, già vi sento: “E Scirea?”), ma non è solo questo. Baresi è un personaggio unico, che unisce tratti epici e tragici, da vero eroe greco. Intanto la “nascita” calcistica: fa un provino nell’Inter, ma viene scartato perché troppo gracile: l’Inter – figurati – sceglie il fratello, Beppe. Dai e dai, Franco riuscirà a farsi prendere nel Milan: ma con il suo metro e settantasei per una settantina di chili (una struttura fisica oggi impensabile per un difensore centrale) non potrà mai metterla sul fisico e dovrà sempre puntare su altro: velocità, anticipo, agonismo, una lettura quasi paranormale dell’azione avversaria. Lui non intercetta il passaggio: lui è sulla traiettoria da prima.

Franco_Beppe_Baresi

Poi la carriera: l’esordio a 18 anni nel Milan, dove si guadagna il soprannome di “Piscinin”, che in milanese vuol dire sì “piccolino”, ma soprattutto garzone, apprendista, quello che ti passa la chiave inglese. Il Piscinin vince subito uno scudetto (1979), poi arrivano gli anni bui: due volte in serie B con il Milan senza fiatare (almeno per quanto se ne sa), malgrado la corte della Juve. Poi i trionfi dell’era Sacchi-Capello. Ricordo, nel 1988, di avere pensato con grande angoscia che se il Milan non avesse vinto lo scudetto quell’anno magari non ci sarebbero state molte altre occasioni per Franz (altro soprannome, ispirato a Beckenbauer) e si sarebbe consumata una grande ingiustizia. Per fortuna vinse quello e molto, molto altro.

E poi l’aspetto. Franco Baresi non è Maldini: non è alto, grosso, bello come un attore. Anche nei momenti di maggiore successo, si è sempre portato dietro un’aria da povero, uno sguardo sofferente di chi lotta per sopravvivere, i capelli sempre più radi e sempre più spettinati (mica come i calciatori di adesso), una voce esile quando viene intervistato, surreale per il grande comandante di difese, che si sarà pur fatto sentire dai suoi compagni in stadi affollati e rumorosi.

Ma poi, diciamocelo chiaramente, l’aspetto tragico della biografia di Baresi, già in qualche modo presente durante la sua strepitosa vita agonistica (le retrocessioni, l’operazione al menisco durante il Mondiale ’94, il rientro in tempo per la finale, il rigore sbagliato) deflagra non appena, a 36 anni, Highlander (copyright: Carlo Pellegatti) lascia il calcio giocato, in una commovente partita di addio, con contestuale ritiro della maglia rossonera numero 6 secondo una prassi di origine americana che altri copieranno maldestramente.

Baresi_Nazionale

Non ne va dritta una, al Capitano. Va a fare il manager al Fulham, la squadra londinese di proprietà di Mohamed Al-Fayed: “A Londra? Quindi parla inglese? Non lo avrei detto”, penso io come molti. E infatti torna indietro nel giro di qualche settimana. Poi allenatore della Primavera del Milan: beh, mica male. Ma non dura. Allenatore della Berretti (una sorta di Primavera B, che da un paio d’anni non esiste più). Oggi “fa parte” della direzione marketing del Milan. Va beh…

Peggio di tutto, la vita familiare. La moglie, Maura, si fa beccare in alcune brutte storie di quadri non pagati, di auto rubate, di truffe in genere, e lo coinvolge. La leggenda metropolitana per cui ogni tanto Silvio Berlusconi stacca un assegno per ripianare i casini combinati dal suo capitano non mi sembra inverosimile. E, a proposito di leggende metropolitane, la storia del figlio “di colore”: una vicenda sgradevole a proposito della quale non ho mai capito che cosa sia successo veramente, probabilmente frutto di un’adozione internazionale tenuta nascosta (non si voleva rivelare che il grande capitano non poteva avere figli?) e degenerata in una vulgata curvaiola ben più piccante.

Insomma: il Capitano, il leader della squadra di club più forte della storia (secondo World Soccer e molti altri) è, fuori dal campo, un uomo fragile, quasi smarrito. Come l’albatros della poesia di Baudelaire. Ricordate? “Il poeta è come il principe delle nuvole / Che abituato alla tempesta ride dell’arciere / Esiliato sulla terra fra gli scherni / Non riesce a camminare per le sue ali di gigante”.

È questo che me lo fa amare ancora di più. Tanti auguri, mio Capitano.