Idee

Facebook, non ti amo più

13 Novembre 2016

“Restiamo amici”, si diceva alle medie quando ci dichiaravamo alla ragazzina del cuore e quella diceva di no. “Vuoi essere la mia ragazza?”. “No, ma possiamo restare amici”. Una formula raffinatissima, un capolavoro antropologico tramandato da chissà chi e chissà quando per scongiurare l’inevitabile imbarazzo generato dalla scommessa al rialzo finita male.

Dislike

E allora restiamo amici, caro Facebook. Ma sappi che non ti amo più.  Eppure ti ho amato moltissimo. A me, appassionato di parole, lettore compulsivo anche dei giornali messi per terra quando si imbiancava la casa, poeta bambino, songwriter adolescente, blogger incanutito, curioso di tutto, non sembrava vero di poterti imboccare – come una gigantesca autostrada gratuita – e viaggiare per ore e ore. Seguendo pagine serie e divertenti, probabili e improbabili. Da quella della squadra di pallavolo di mia figlia a quella dello Smithsonian Institute, da Starmale allo Scottish Green Party, da La Faccia Cattiva di Amedeo Della Valle a Chicago Blues, da Seth Godin a Manuel Locatelli: 696 like a cose e persone che mi sono scelto una per una perché mi sembrava che mi potessero piacere, informare, divertire, emozionare. Oltre ai miei 436 amici che in buona parte conosco davvero.

E allora, che diavolo vuoi?, vi starete chiedendo. Niente. È solo che mi è venuta la nausea. Non dello Smithsonian Institute, beninteso, ma del tono generale, del mood dominante. Succede una cosa? Si commenta come se fosse avvenuto il suo contrario. Qualcuno commette un reato o un gesto contrario alle regole? Si stigmatizza chi lo ha subìto. Qualcuno fa una cosa buona? “Ci sarà dietro qualcosa, l’avremo pagata noi cittadini” (in genere c’è scritto due righe sotto che non è così, ma il 99 per cento di chi commenta legge la prima parola e poi parte lancia in resta contro il buonsenso). È un misto di ignoranza (quella vera, abissale, un pozzo profondo senza vie di uscita), di disinformazione (cioè di ignoranza della cosa di cui si parla), e per di più esibita come una virtù (sulla dittatura dell’ignoranza, per cui avevo coniato scherzosamente il termine “ignocrazia, avevo già scritto qualcosa, ma non pensavo che il caso fosse così grave), di malafede. Il tutto accompagnato da un abbondante condimento di violenza verbale, di presunzione, di toni sarcastici, ultimativi, fintamente analitici. Lunghe dissertazioni nelle quali è chiaro dalla prima riga dove si vuole andare a parare (in genere “Tizio è uno stronzo, io l’ho sempre saputo”).

Le cose maturano a lungo, come i semi sotto la neve, in inverno. E così deve essere stato anche per il mio nuovo stato d’animo nei confronti di Facebook. Poi, all’improvviso, ti sbocciano davanti e non puoi fare a meno di vederle. Da quel momento, come quando non ne puoi più di una persona e ne vedi aspetti insopportabili che prima si confondevano nella quotidianità, apro Facebook e tutto mi sembra farneticazione.

È colpa di Facebook? Non lo so. Hitler, Stalin, Berlusconi, maestri nel rovesciamento delle realtà, nel trasformare il carnefice in vittima e viceversa, non avevano Facebook. La stupidità, l’ignoranza, la violenza verbale sono sempre esistite. Ho sempre pensato che il mezzo sia neutro: che dare di volta in volta la colpa alla radio, alla televisione, a Internet, a Facebook sia un errore. Ma ora – e lo dico seriamente, anche da professionista della comunicazione – mi pare che siamo in presenza di un salto di qualità. Mi pare che ci sia una degenerazione innegabile, un significativo parallelismo fra il divampare del peggiore populismo in tutto il mondo, fra la nascita di ciò che qualcuno chiama società “post-fattuale” (o “post-truth”), fra la crociata contro la scienza (vaccini, chemioterapia, big pharma, follie varie), e il miliardo e ottocento milioni di utenti registrati su Facebook. Che inizia ad apparirmi non come una città allegramente mista, dove si incontra gente di tutte le razze (e anche di tutte le moralità); bensì come un quartiere nel quale i malfattori hanno preso il sopravvento e i cittadini vivono tollerati e in apprensione. Facebook – provo a dirlo ancora meglio – è un habitat troppo favorevole per le menzogne perché si possa ancora fare finta che il mezzo sia neutro. È la palude per le zanzare. È un bosco pieno di rami secchi per il fuoco. Facebook è un bar, dice qualcuno: chiunque entra e parla. Benissimo: ma allora è diventato un bar nel quale gli ubriachi molesti, che ci sono sempre stati, hanno preso il centro della scena.

E allora? E allora proviamo a restare amici. Non chiuderò il mio profilo. Ma l’amore no. L’amore che ho provato per la grande strada blu che conduce ovunque è finito. Il piacere di commentare, di dibattere, anche di polemizzare, è scomparso sotto una montagna di spazzatura. Che mi pare essere diventata la vera materia costitutiva di Facebook. E, fossi Mark Zuckerberg, inizierei a preoccuparmene (e forse lo sta facendo, anche se blandamente): non del mio microscopico parere, s’intende, e non in termini di ricchezza personale, ché ci vorranno parecchie generazioni per smantellare il patrimonio che il suo genio ha costruito. Ma in termini di strategia industriale di lungo termine, sì: a meno che voglia fare di Fb un gigantesco quartiere off limits in cui – per ulteriore beffa – non ci sono neppure le donne nude.