Un disco all'anno: 1984

“Steeltown”, dalla Scozia con furore

31 Dicembre 2022

Vi ricordate la nevicata del 1985? Il ricordo che ho di quell’inverno, e in particolare di quei giorni di gennaio di diffusa emergenza (che ben si conciliavano con il mio status di studente universitario piuttosto svogliato e, anzi, gli fornivano un alibi), è un lungo, quasi ininterrotto vagabondaggio per Milano, a piedi o sui mezzi pubblici che riuscivano a muoversi, e che talvolta si bloccavano di punto in bianco per il ghiaccio sulla strada e facevano scendere tutti i passeggeri; un vagabondaggio accompagnato da un Walkman, non quello della Sony ma di qualche sottomarca meno costosa. In quel Walkman c’era una cassetta che girava instancabilmente: “Steeltown”, il secondo album dei Big Country. Tanto che ancora adesso se ascolto quel disco il pensiero di quell’inverno (e di un me ventenne piuttosto spaesato e non solo a causa delle montagne di neve) riaffiora con la forza che hanno non già i ricordi bensì le sensazioni fisiche.

Signori, si scende.

 

“Steeltown”, il secondo album dei Big Country, era uscito a fine ’84: per una volta, quindi, ero perfettamente aggiornato. Come ci ero arrivato?

I Big Country erano un quartetto scozzese: il vero scozzese era il leader, cantante e chitarrista Stuart Adamson; l’altro chitarrista, Bruce Watson, è canadese; il bassista, Tony Butler, è nato in Inghilterra da genitori dell’isola di Dominica; il batterista, Mark Brzezizcki (“l’uomo dal nome impronunciabile”, come veniva definito nel giro musicale dell’epoca), era anch’egli inglese, con un padre inequivocabilmente polacco.

Ma i Big Country erano profondamente scozzesi nella musica: una musica fatta di chitarre che sembravano cornamuse (un suono fortemente distintivo ottenuto tramite due aggeggi – un pitch transposer e un e-bow – su cui ora non mi dilungherò), di testi epici, della migliore sezione ritmica degli anni ’80 (chiedere a Pete Townshend e a Roger Daltrey, che qualcosina di bassisti e batteristi capivano, e che hanno spesso impiegato il duo nei loro album solisti), di un’estetica che pescava dall’urgenza del punk, dalle melodia del folk celtico, dal senso costante di tragedia e di sturm-und-drang di cui sono piene le tradizioni nordiche e che culminava nella voce e nell’aspetto fisico di Stuart Adamson, una specie di Braveheart della musica (anche, purtroppo, nel destino tragico).

Stuart “Braveheart” Adamson

Il loro primo album, “The Crossing”, uscito nel 1983, aveva preso tutti “by storm” (è il caso di dire, citando il titolo di un brano), grazie soprattutto al singolo “In a Big Country”, un brano che rimarrà un classico per il mix di suoni, di melodia, di testi, di suggestioni, di novità. L’album aveva venduto un milione di copie nel Regno Unito ed era diventato disco d’oro anche negli Usa, al punto tale che anch’io avevo non solo preso nota del fenomeno ma ero stato completamente sedotto da questo prodigioso mix di vecchio e di nuovo, di Jethro Tull e di Clash (Adamson proveniva da un gruppo punk, gli Skids) che sembrava inventato apposta per i miei gusti.

Con queste premesse, il secondo album “Steeltown” era stato atteso con ansia. La molla dell’aspettativa, caricata a lungo, lo aveva catapultato al primo posto delle classifiche UK. E tuttavia la critica, smorfiosetta come sempre (come sapete bene su questo problema del secondo album ci ho costruito un programmino radiofonico intitolato “Dieci secondi”), aveva decretato che no, basta, la magia era finita, grazie, già visto, già sentito, già capito tutto, passiamo ad altro, qual è la next big thing?

Grafica anglo-sovietica, metà anni ’80

E invece “Steeltown” è un disco meraviglioso, cupo, triste, come deve essere un disco che arriva dalla periferia dell’impero, attraversato dalla crisi provocata dalla deindustrializzazione inglese, ben evidente nel titolo e nella copertina un po’ sovietica, ma anche (o soprattutto) da quel fenomeno assurdo ed evidentemente scioccante che è stata la guerra delle Falkland, a seguito della quale per la prima volta dopo quasi quarant’anni gli inglesi vedevano arrivare a casa le bare di ragazzi morti in combattimento. “If I die in combat zone / box me up and ship me home. / If I die and still come home / lay me where the rose is sown”, canta Stuart Adamson in “Where the rose is sown”, un trionfo iper-romantico di guerra, amore e morte. Mentre in “Come back to me”, su un rullante a tempo di marcia militare lenta, la voce narrante è quella di una giovane donna che assiste alla festa per il ritorno dei soldati, mentre lei, vedova e incinta, “siede in cucina, senza un fuoco acceso, sapendo che questa casa ha perso la possibilità di scaldarmi ancora”.

Certo, non bisogna cercare in “Steeltown” una canzone paragonabile a “In a big country”: il singolo principale di questo secondo album, “East of Eden”, non ha la forza e l’originalità del suo predecessore; e in generale il senso di “Steeltown” non va cercato nel picco isolato ma piuttosto nei suoi numerosi anfratti, che si valorizzano ascolto dopo ascolto. E sono, a sorpresa, proprio le ballate – in cui il muro chitarristico di Adamson e Watson riposa – a offrire i momenti più suggestivi: la già citata lamentazione funebre di “Come back to me” e la delicata “Girl with grey eyes”, in cui basso e batteria sono i veri strumenti solisti.

Da qui in avanti, questo va detto, i Big Country non riusciranno a ripetersi con la forza e l’originalità degli esordi né a far evolvere il loro suono in qualcos’altro. Come vecchi amici cui è impossibile non volere bene, onesti, genuini, impegnati fino allo spasimo nei loro temi fra il sociale (ma intanto gli anni ’80 sono finiti e la Thatcher se n’è andata) e il romantico, musicalmente inappuntabili, produrranno i classici dischi perfetti per chi si è innamorato del loro suono (quorum ego), ma sempre meno rilevanti. Niente di male, si intende: anche i Rolling Stones hanno smesso di produrre contenuti musicali rilevanti alla metà degli anni ‘70, eppure nessuno li biasima per questo, anzi. “The Seer”, il terzo album, galleggia ancora su ottimi brani e su un’ospitata di lusso di Kate Bush nel brano omonimo. Poi una lenta discesa nel genere “for fans only”, imitativo ma con sempre meno forza, non privo di qualche bel brano da infilare in un’antologia non scontata.

Poi, nel 2001, la notizia tanto tragica che sembra pescata da un brano di Steeltown: Stuart Adamson, che curiosamente viveva a Nashville, non proprio il suo background musicale – ma prima o poi tutti i musicisti vanno a Nashville a sciacquare i loro plettri – scompare nel nulla (non era la prima volta) e dopo qualche giorno di ricerca viene trovato morto, verosimilmente suicida, in un albergo delle Hawaii, a conclusione di una lunga storia di alcolismo purtroppo non infrequente fra i musicisti. “Lost in a big country”, titolava con efficacia il New Scotsman del 12 dicembre 2001, laddove il grande paese non era il Tennessee o l’America, ma piuttosto il cuore da highlander di Stuart, incapace di governare il traffico di emozioni, talento, successo, declino.

Stuart si era perso, ma i Big Country si sono ritrovati. Come spesso accade, tutto è nato da un concerto celebrativo per il 25 anni del gruppo, nel 2007. Oggi, dopo numerosi cambiamenti di formazione e persino un disco del 2013 con il cantante degli Alarm, Mike Peters, la band è tuttora attiva: certo, è di fatto una cover band dei “veri” Big Country, ma saperla in giro, verosimilmente alle prese con piccole folle locali ed entusiaste, pronte a esplodere quando attacca “In a big country”, scalda ancora il cuore.