Pensieri

Siamo tutti sulla stessa highway

18 Giugno 2014

Tre fatti successi lunedi 16 giugno – e di cui si è molto parlato anche l’indomani –  mi hanno provocato riflessioni profonde, tumultuose, quasi dolorose.

(Spoiler: non tenterò sociologismi sulla società del “tutto subito”, non parlerò dei media, delle foto prese da Facebook, della curiosità morbosa, perché – adesso – non me ne frega niente).

Il primo è la strage compiuta da Carlo Lissi, uno sciagurato 31enne di Motta Visconti, ai danni della sua famiglia: moglie e due figli piccoli.

Quando si è appreso del massacro, avvenuto la sera di Italia-Inghilterra, non si sapeva ancora chi fosse il colpevole. Da sabato sera ci ho pensato di continuo: chi sarà stato? E chi “è meglio” che sia stato? Mi spiego. I casi sono tre: uno, il delitto è interamente maturato dentro la famiglia (leggi: è stato il padre); due, il delitto è una vendetta per qualcosa (tipo: il padre aveva casini con la malavita); tre, il delitto è opera di un rapinatore, di un pazzo, di un maniaco (non è quasi mai così, ma per qualche ragione è il primo pensiero). Come si vede, procedendo dal caso uno verso il tre, il grado di casualità aumenta. Se nel primo caso è successo e poteva succedere solo lì, nel terzo può capitare a tutti, sempre, senza una logica. Anche a me, anche a noi.

Dev’essere per questo, mi sono detto, che quando commenti con gli amici questi episodi speri – se si può dire così – che il colpevole sia il padre. Perché il fatto che un simile orrore possa investire per caso, per capriccio, la tua famiglia, la tua vita, i tuoi affetti, è terrificante e totalmente inaccettabile, specie se hai moglie e due figli.

Mentre pensavo questo, ho sentito che Michael Schumacher è uscito dal coma. Ebbene: ora non è chiaro se Schumacher stia davvero progredendo o se, viceversa, i medici abbiano solo deciso di ridurre i farmaci che gli inducevano il coma, senza che ciò riveli un effettivo miglioramento delle sue condizioni (parentesi: tutti i giornali e telegiornali l’hanno fatta passare come una buona notizia, ma ad approfondire un po’ non è proprio così, bensì è il frutto di decisioni e di pratiche mediche in atto da molto tempo).

Comunque sia, ho provato a immaginare che cosa hanno fatto i familiari del pilota in questi sei mesi circa. Io credo e spero che gli abbiano parlato e tenuto la mano il più possibile. Esiste una ricca bibliografia sui risvegli indotti dalla presenza o anche solo dalla voce di un congiunto o di una persona famosa (tipicamente uno sportivo o un cantante); c’è persino, per sdrammatizzare un po’, un aneddoto che riguarda Berlusconi, naturalmente gravato dal sospetto della mezza (totale?) bufala.

Io, senza nulla togliere al simpatico presidente della mia squadra preferita, sento che se qualcosa avesse il potere di strapparmi al coma questo qualcosa sarebbe la voce dei miei figli: lo so dalla gioia che provo ogni volta che li vedo, li tocco, li bacio (sempre meno, perché diventano grandi e quindi un po’ refrattari alle mie antiche smancerie).

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Che cosa c’entra? C’entra. Perché nello stesso giorno, o quasi, nel quale io penso che i miei figli potrebbero riportarmi in vita (io proverei a fare lo stesso per loro, non so con che risultato: la loro voce, giovane, “nuova”, fresca è sicuramente più vivifica della mia) un padre come me, a poca distanza da qui ha sgozzato i suoi due figli, oltre che la moglie. Come è possibile? Che cosa passa nella testa di un uomo apparentemente normale che arriva a tanto?

Poi, in serata, il terzo episodio di questa giornata: è stato identificato l’assassino di Yara Gambirasio, la ragazzina di 13 anni uccisa nel 2010. Ricordo l’angoscia che provavo quando Yara era scomparsa: speravo che la trovassero viva; provavo un’enorme apprensione, quasi affetto, per quella ragazzina così simile a mia figlia (che adesso ha proprio la stessa età e lo stesso apparecchio sui denti), speravo che emergesse una spiegazione, un filo da seguire, un perché in grado – come dicevo all’inizio – di separarci dal baratro incomprensibile della casualità pura.

Ancora: che cosa c’entra? Non lo so. E quando non si sa una cosa, si fa bene a chiedere a chi è più bravo. Io l’ho chiesto al Boss, Bruce Springsteen (è la seconda volta, in pochi giorni, che mi tocca disturbarlo), il quale mi ha risposto così:

“Sometimes I sit up in the darkness
And I watch my baby as she sleeps
Then I climb in bed and I hold her tight
I just lay there awake in the middle of the night
Thinking ‘bout the wreck on the highway”.

È una canzone, Wreck on the Highway, dell’album The River. Lui, la voce narrante, arriva per primo sul luogo di un incidente. Fa in tempo a sentire la vittima che gli dice “Mister, won’t you help me please”. Arriva un’ambulanza. Si suppone che la cosa non finisca bene (ci sono dei poliziotti che vanno ad avvertire una moglie).

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Poi l’ultima strofa, che ho riportato qui sopra. Penso a quell’incidente, ci dice Bruce, a quel poveretto che non rivedrà la sua famiglia. Allora abbraccio la mia ragazza, mentre dorme, perché avrei potuto esserci io, su quella highway. È il pensiero della caducità, della fragilità di tutto, di noi, dei nostri affetti. Forse quell’abbraccio non ci salverà, ma è tutto ciò che abbiamo.

È per questo che adesso vado a casa.