Un disco all'anno: 1971

“Live At Fillmore”, passione e ragione

23 Maggio 2016

La musica, come ogni espressione popolare, è spesso legata alla sua provenienza geografica: c’erano il blues del Delta e quello di Chicago, e il jazz di New Orleans e quello di Kansas City. Ma i fratelli Allman portano (io credo per la prima volta) questo criterio in ambito rock, mainstream e bianco. E inventano il rock sudista.

At Fillmore East (1971)Lo fanno, naturalmente, in modo involontario, credendo di suonare blues: o, se vogliamo dirla in modo più articolato, partendo da un repertorio blues-rock che, tuttavia, sfugge loro di mano quasi subito, non diversamente da quanto avviene in quegli stessi anni ad altre latitudini. Quando ancora i ragazzi fanno le prove generali in formazioni pre-ABB come The Allman Joys, The Hour Glass, 31st of Febrauary o The Second Coming, il loro repertorio comprende i grandi successi della British Invasion: come “Shapes of Things” (sì, quella degli Yardbirds), Spoonful, “Crossroads”, “Morning Dew”, addirittura “I Feel Free”, dei Cream.

Insomma, a parte che ci sarebbe da fare un bel discorso sul confronto fra i brani originali (originali inglesi, intendo) e le cover degli Allman, e in qualche caso il confronto è impietoso perché – pound for pound – alla chitarra Duane se la gioca con tutti mentre Gregg canta meglio di quasi tutti, a parte questo, dicevamo, lo schema appare chiaro: i ragazzi Allman vorrebbero “solo” suonare rock-blues come i cugini inglesi.

Poi accade qualcosa. E il qualcosa, come sempre quando si tratta di una rivoluzione, è una combinazione di altri qualcosa. Tralasciamo pure il qualcosa che sapete già, cioè che Duane Allman, detto Skydog, è uno dei più grandi chitarristi di sempre, e per qualcuno (qualcuno tipo Eric Clapton) è forse il più grande. L’altro qualcosa è Gregg, il fratellino minore di un anno: organista, grande cantante ma soprattutto gigantesco compositore di – appunto – un genere nuovo. Il terzo e ultimo qualcosa è la follia organizzativa che conduce Duane, già session man stellare finalmente autorizzato dalla Capricorn Record a formare un gruppo e nella fattispecie un trio chitarra-basso-batteria (che fantasia, questi discografici!) a presentarsi a Macon, Georgia, con qualche sorpresa. “Veramente saremmo in sei: basso e batteria ci sono, poi c’è mio fratello che canta e suona l’Hammond, un altro chitarrista perché non ho problemi di ego e un altro batterista perché non mi decidevo a scegliere”.

Gregg AllmanQuando ascolto oggi un disco d’esordio uscito in anni in cui in cui non c’ero o ero troppo piccolo per ascoltare musica, mi concentro sulle prime note. Noi diamo per scontati un sacco di artisti, penso: ma che cosa hanno sentito quelli che li hanno ascoltati in diretta? Gli ABB esordiscono nel 1969 con un disco omonimo. E decidono di non fare sconti. Il primo brano, infatti, è “Don’t Want You No More”, uno strumentale (di Spencer Davis, ultimo tributo agli anni British) che mischia rock, jazz, blues, percussioni latine. Ma lì, dietro la porta, c’è tutto il suono Allman: lo straordinario blues lento (“It’s Not My Cross To Bear”, di Gregg, ispirato come quasi tutto l’album da una fidanzata rompic…), il blues classico di Muddy Waters, e i pezzi lunghi alla Allman come “Dreams” e “Whipping Post” (flagellazione: vedi alla voce “fidanzata”). Se questo non è il più importante album d’esordio della musica americana, poco ci manca. Ma siccome siamo andati un po’ lunghetti e del disco dell’anno non abbiamo ancora iniziato a parlare, facciamo un salto in avanti.

Nel 1970 gli ABB pubblicano il secondo album, “Idlewild South”. Ma soprattutto a settembre Duane partecipa alle registrazioni di “Layla”: il sigillo regale che certifica il suo ingresso nell’aristocrazia mondiale dei chitarristi e, di riflesso, contribuisce a lanciare definitivamente il gruppo.

Duane Allman

E finalmente viene il momento della consacrazione live, la dimensione in cui la band dà il meglio di sé.  A marzo del 1971 gli Allman registrano una serie di show al Fillmore East di New York, con il preciso intento di farne il loro terzo disco, un doppio dal vivo. Quello che accade è difficile da descrivere. “Any comparison to anybody is fatuous”, dirà la recensione di Rolling Stone.

GattusoEPirlo R

Non ci sono confronti. Che suonino i blues ruvidi dei padri fondatori Blind Willie McTell ed Elmore James oppure le loro composizioni originali, gli Allman tengono insieme la spontaneità rovente del blues sudista e la precisione ingegneristica della loro macchina a sei ruote motrici: il punk e Bach insieme, il cuore e la testa, Gattuso e Pirlo. La parola chiave è “equilibrio”: è in nome di questo perfetto equilibrio, credo io riascoltando “At Fillmore East” per la millesima volta, che il giornalista di Rolling Stone scrisse che “qualsiasi paragone con chiunque sarebbe stato vano”.

Due di questi slide sono boccette di Coricidin: dopo Duane, altri chitarristi le avrebbero usate.

Due di questi slide sono boccette di Coricidin: dopo Duane, altri chitarristi le avrebbero usate.

Ovviamente in questa architettura perfetta è la Gibson Les Paul di Duane Allman a svettare, e a promuovere lo slide (e la boccetta del Coricidin!) a disciplina  accademica che nessun chitarrista rock potrà mai più ignorare. Ma è la macchina Allman a rendere possibile questo capolavoro: lo si percepisce già dal quartetto di brani blues che aprono il disco e che, lentamente, aprono a mondi musicali diversi: la dinamica con cui ogni assolo si apre, evolve, si conclude ha molto a che fare con il jazz; mentre la precisione mostruosa degli stacchi, dei cambi di ritmo, degli incastri fa pensare al virtuosismo del progressive o di quella che, anni dopo, chiameremo (ahinoi) fusion. Solo che qui è al servizio di una musica calda, emozionante, in una parola viva.

Potrei dirvi che “Statesboro Blues” e “Done Somebody Wrong” sono assalti all’arma bianca. Che “Stormy Monday” ridefinisce il genere del blues lento con una ricchezza dinamica sconosciuta ai più. Che “Whippin’ Post” dura oltre venti minuti ma non ce n’è uno di troppo, neppure per me, fiero odiatore dei dischi dal vivo e delle loro lungaggini da congresso vetero-comunista.

E però devo dirvi che questa storia meravigliosa non finisce bene, perché il 29 ottobre 1971 Duane Allman muore in un incidente motociclistico: ha 25 anni, in due anni è passato dall’anonimato alla leggenda, quasi senza transitare dalla fama. Dopo un anno da Hendrix, il mondo ha perso un altro grandissimo chitarrista, anche se forse non si è ancora capito. Il rock sudista è appena nato e ha già assunto un’intonazione tragica, che i Lynyrd Skynyrd svilupperanno (purtroppo) a meraviglia sostituendo alla moto l’aereo, con quel che ne consegue.

Derek Trucks, cioè Duane Allman reincarnato: un mistero glorioso del blues.

Derek Trucks, cioè Duane Allman reincarnato: un mistero glorioso del blues.

C’è una consolazione, però. Duane Allman sì è reincarnato. Non è uno scherzo. La sua somiglianza (fisica e musicale) con Derek Trucks (nipote del batterista Butch Trucks), chitarrista slide dallo stile inconfondibile, a lungo negli Allman Brothers, è qualcosa di più che sorprendente: è uno di quei misteri del blues di cui parlano le canzoni di Robert Johnson. A cui, in fondo, tutto torna.