Musica

Anni ’80: resta un sacco di roba buona

19 Aprile 2013

Qualche giorno fa ho partecipato a un incontro su musica e web. A un certo punto qualcuno ha detto: “Se negli anni ’80 ci fosse stato Internet, non avrei sprecato un decennio”. Traduzione: ascoltavo il mainstream di quegli anni e mi sono perso tutto il meglio. Immaginare gli anni ’80 con il web è un paradosso divertente, ma io la penso all’opposto: se uno vuole ascoltare “il meglio”, in un modo o nell’altro lo trova. Chiede, legge, ascolta certe radio e non altre, procede per indizi: scopre che nel disco di Tizio, che gli piace moltissimo, un certo Caio suona la chitarra. O che il pezzo più bello è scritto da Sempronio. Avranno mica fatto anche loro dei dischi, questi Caio e Sempronio? E così via.
R.E.M.

Persino nei plasticosi anni ’80, in realtà, uscivano cose bellissime. E non parlo dei tardi prodotti di gruppi formatisi molti anni prima, ma di roba “contemporanea”: non parlo, per capirci, dei Rolling Stones, di Springsteen o di Eric Clapton (del quale parlo a sufficienza qui). Quindi, per gioco, pescando dalla mia libreria di iTunes, e di conseguenza con assoluta soggettività e clamorose manchevolezze, ecco i miei dischi preferiti per ogni anno del decennio.

1980 – “Sound Affects” dei Jam: ascolti “That’s Entertainment” e ti sembra di essere un proletario inglese anche se sei nato a Niguarda. Ho ascoltato sicuramente di più “Making Movies” dei Dire Straits e “Zenyatta Mondatta” dei Police: ma nessuno dei due è il disco migliore del rispettivo gruppo.

1981 – “Ghost in the Machine” dei Police, con “Invisible Sun” che mi emoziona ancora adesso. Ma il reggae-dub anti-thatcheriano di “One in Ten” degli UB40 (su “Present Arms”) ha cambiato il mio panorama musicale.

1982 – Qui le cose si complicano. “The Days of Wine and Roses”, dei Dream Syndicate è la conferma della mia tesi: cioè anche negli anni ’80 si faceva della musica “roots” bella sporca, con chitarra basso e batteria. Poi due capolavori raffinati e retro, “Night and Day” di Joe Jackson e “The Nightfly” di Donald Fagen. Non ho finito: c’è “Business as Usual”, dei Men at Work, un fantastico album di pop intelligente e divertente, pieno di bei singoli. Visto? Non c’erano solo i Duran Duran. Andiamo avanti.

1983 – Nessun dubbio: non saranno stati un gruppo di prima grandezza, ma per me i Big Country, con le loro chitarre che sembravano cornamuse, restano una delle cose più affasciananti degli anni ’80: degli ex-punk che recuperavano atmosfere celtiche con due chitarre e una sezione ritmica stellare. Nell’83 è uscito “The Crossing”, con il singolo “In a Big Country”. Nello stesso anno ho scoperto gli U2, tramite “War” e i due singoli “New Year’s Day” e “Sunday Bloody Sunday”. Mamma mia, che roba!U2

1984 – Dopo gli irlandesi U2 e gli scozzesi Big Country, si completa il trittico non-inglese: dal Galles arrivano gli Alarm, con “Declaration”. Esce anche il secondo album dei Big Country, “Steeltown”, che la critica ha un po’ snobbato ma che secondo me è meglio del primo. E poi “Heartbeat City” dei Cars (il pop-rock portato alla perfezione) e quella gemma incredibile dei Pretenders, che ha fatto innamorare tutti noi di Chrissie Hynde: “Back on the Chain Gang”. E, sempre nel 1984, guardando MTV (o era ancora Videomusic?) vedo dei tizi con una chitarra Rickenbacker che suonano una grande ballata il cui ritornello dice solo (mi pare di capire) “I’m sorry”. Avevo scoperto i REM, pensa un po’.

1985 – Nell’85 il movimento “roots”, la musica americana ispirata alle radici e al folk-rock, dà il meglio di sé: il mio disco preferito è “State of our Union”, dei Long Ryders (la “y” è un evidente omaggio ai Byrds). Ma esce un po’ di tutto: nello stesso genere “Gas Food Lodging” dei Green on Red; nel Regno Unito, e in tutt’altro genere, i Marillion (un po’ pomposi, però “Misplaced Childhood” è un bel disco); il capolavoro dei Pogues, “Rum, Sodomy and the Lash”. E poi, quasi mi scappava, “Our Favourite Shop” degli Style Council, uno dei migliori ritratti dell’Inghilterra (anti)thatcheriana.

1986 – Dal nulla appaiono gli Housemartins con il loro jangle-pop pieno di armonie vocali. In America gli Husker Du con “Candy Apple Grey” capiscono tutto: rumore chitarristico e melodia. Ma è troppo presto, bisognerà aspettare i Nirvana. Mentre i REM fanno uscire “Life’s Rich Pageant”, uno dei loro album migliori (il migliore?).

1987 – Non ci avevo mai fatto caso: il 1987 dovrebbe essere ricordato per sempre come l’anno ideale di quella musica americana che oggi viene definita Americana. Sentite un po’: il numero uno, John Hiatt con “Bring the Family” (con Ry Cooder alla chitarra), poi Dave Alvin con “Romeo Escape”, Steve Earle con “Exit O”, John Mellencamp (che aveva da poco smesso – per fortuna – di farsi chiamare John Cougar) con “The Lonesome Jubilee”. Un trionfo di chitarre acustiche, violini, fisarmoniche, slide: senza questi dischi oggi non ci sarebbero i Mumford & Sons.

1988 – Al primo posto, i neozelandesi Crowded House con “In the Temple of Low Men”: ancora oggi mi chiedo come si possa pubblicare un disco con una qualità media dei pezzi così elevata. L’anno ci regala anche “La Pistola y el Corazon” dei Los Lobos, un altro grande disco dei Pogues (“If I Should Fall From Grace With God”) e altre cosine come “Rattle and Hum” degli U2.

1989 – Il mio personaggio musicale dell’anno è senza dubbio Daniel Lanois che (oltre a produrre “Oh, Mercy” di Dylan) pubblica il suo primo disco, “Acadie”, inventandosi un genere in cui convergono cajun, rock, folk e in cui la produzione stessa è uno strumento musicale.

Insomma. Arriveranno gli anni ’90, anni più “buoni” e speranzosi dei cupi Eighties reaganiani e thatcheriani. E parlare di rock e di chitarre ridiventerà facile. Ma, intanto, che divertimento continuare a cercare e a scegliere, anche quando gridare “Wild Boys” con il braccio alzato sembrava l’unica opzione consentita.