Musica

Ciao Enzo, salutami i miei

1 Aprile 2013

Enzo JannacciLa morte di Enzo Jannacci, per me, non è solo la scomparsa di un grande artista, capace di unire come pochi il tragico e il comico, il particolare e l’universale, l’alto e il basso. E non è neanche la perdita di una voce, forse la più originale, della citta in cui sono nato e in cui vivo, Milano.
Di tutte queste cose ci si fa una ragione: l’opera d’arte sopravvive all’artista proprio in quanto opera d’arte. Abbiamo perso Bach, Jimi Hendrix e Fabrizio De André, ma in realtà non li abbiamo persi perché ci resta di loro la cosa più importante: la loro musica.

Con Jannacci, però, provo qualcosa di diverso: una malinconia nuova e più profonda. Perché con lui se ne va anche qualcosa di più intimo della sua musica: un pezzo della mia vita e della mia famiglia.

Ho scoperto Jannacci da bambino, tramite due 45 giri trovati in casa. Quattro canzoni (non saprei dire suddivise come): “Ho Visto un Re”, “Giovanni Telegrafista”, “Bobo Merenda”, “Vengo Anch’Io”. Poi, poco più tardi, qualcuno mi ha regalato un Lp, con ogni probabilità una raccolta, che conteneva grandi classici come “Ma Mi”, “Andava a Rogoredo”, la struggente “L’Era Tardi” (non so perché, ma quell’ex soldato che andava dal Rino – invano – a farsi dare mille lire in un difficile dopoguerra mi è sempre sembrato di conoscerlo).

Jannacci non era “mio”, come invece sarebbero stati “miei” altri cantanti scoperti fuori, alla radio, grazie agli amici più grandi. Lo avevo trovato in casa, me ne avevano parlato – con amore e passione – i miei genitori. Jannacci era loro, rappresentava plasticamente il loro amore sfegatato per Milano, la loro città da cui erano partiti poco dopo la mia nascita per tornarci sei anni dopo e che, anche a causa di questo piccolo e in fondo innocuo esilio, avevano amato e – forse – idealizzato.

Quando ho saputo che Enzo Jannacci era morto, la prima reazione è stata il desiderio di commentare la notizia con i miei genitori. Tardi, purtroppo. È forse la prima volta che accade qualcosa di così intrinsecamente legato a loro, da quando loro non ci sono più. Jannacci, vorrei dire, manca più a loro che a me. Manca a me perché mancherebbe moltissimo a loro. Mi manca perché non posso parlarne con loro. Con la sua morte ho scoperto di essere un po’ più solo. Cresci con l’idea di essere un vagone, poi all’improvviso scopri di essere la locomotiva. Davanti a te non c’è più nessuno.