Un disco all'anno: 1968

“Electric Ladyland”: il breve volo del più grande

29 Novembre 2015

La ricchezza della personalità di Jimi Hendrix (ebbene sì, ho ceduto alle intimidazioni: i responsabili sappiano però che la polizia è sulle loro tracce e non darà tregua a chi ha minacciato di rompermi il giradischi) è tale che c’è un Hendrix per ognuno di noi: quello che bruciava le chitarre sul palco, il dandy psichedelico, quello che modificava i pick-up della Stratocaster, quello discriminato perché nero, quello che aveva troppe fidanzate bionde contemporaneamente, quello drogato, quello di Seattle, quello di Londra, il paracadutista della 101esima, il chitarrista, il cantante, il compositore, e così via.

Jimi Hendrix

Jimi Hendrix è nato a Seattle il 27 novembre 1942

A me Jimi Hendrix ha sempre fatto tenerezza.

Ancora prima di leggere le sue biografie e i testi delle sue canzoni, ho sempre avvertito in ogni sua nota e ogni suo atto una grande malinconia, un vuoto, una solitudine, quasi l’idea stessa di una perdita originaria. Che poi, forse, è una perdita originaria che abbiamo dentro tutti, solo che non tutti siamo capaci di scrivere “Little Wing”.

James Marshall Hendrix, che avrebbe in realtà dovuto chiamarsi Johnny Allen Hendrix e che da bambino i parenti chiamano Buster, viene da una famiglia poverissima di Seattle: la routine fra i genitori Al e Lucille è da sempre fatta di litigi e riconciliazioni che sfoceranno alla fine nella separazione dopo gravidanze numerose (alcune delle quali nemmeno riconosciute da Al), ben quattro fratelli dati in affido (ve le immaginate, quelle separazioni, quei saluti sulla porta?), un’infanzia affidata per lo più alla generosità di vicini di casa e parenti. Lucille muore quando Jimi ha quindici anni (è questa, probabilmente, la sua ferita archetipica): lui la idealizza facendone il centro della sua poetica, l’angelo che veglia su di lui, la “piccola ala”, ben oltre i suoi reali meriti di genitrice. Jimi “Buster” Hendrix, insomma, è un bambino abbandonato, sballottato di qua e di là. Lo sarà sempre. Per questo sono le sue ballate, i brani più dolci e indifesi, quelli che mi sembrano i più vicini all’essenza di Hendrix, anche se non c’è dubbio che altri elementi concorrano in profondità alla sua poetica.

La differenza fra lui e molti altri bambini abbandonati è che mentre precipita nel vuoto Jimi si aggrappa, chissà come, a una chitarra. La prima chitarra ha una corda sola, ma lui ci si aggrappa lo stesso. Poi riuscirà a comprare le corde. Poi una chitarra elettrica. Poi un amplificatore. Poi la chitarra gli verrà rubata. Solo molto più tardi verranno le belle Stratocaster bianche con cui lo ricordiamo. Ma lui continuerà a rimanere aggrappato a un manico di legno che – fintanto che sarà possibile – gli impedirà di cadere, di schiantarsi, di volare via.

Hendrix Electric Ladyland

Jimi Hendrix – Electric Ladyland (1968)

Secondo molti, “Electric Ladyland” è il capolavoro di Hendrix. Anche se parlare di capolavoro per uno che ha inciso quattro dischi, tutti capolavori, ha poco senso. Probabilmente è il più compiuto, nel senso che gli ingredienti (il canto, la chitarra, la qualità delle composizioni, il suono della band, la tecnica di registrazione, ma anche l’insofferenza di Jimi agli schemi) sono meglio amalgamati.

Dopo l’introduzione “And The Gods Made Love”, uno strano gioco di nastri accelerati e rallentati e forse suonati al contrario (ma senza messaggi del diavolo, che io sappia), che ricorda l’analogo “ESP” che apriva “Axis: Bold As Love”, si entra subito nel vivo: “Electric Ladyland”, un brano dolce e brevissimo (2’11”, ancora meno di Little Wing) in cui troviamo il migliore Hendrix, quello bravo soprattutto a togliere. Una ballata soul, voce in falsetto, pochi secondi di assolo, quando pensi che riparta con una nuova strofa è già finito e inizia “Crosstown Traffic”.

Non voglio farvi la recensione brano per brano di un album che probabilmente tutti conoscono e che chiunque può ascoltare, traendone enorme e sempre nuovo beneficio. Mi limiterò alle tre canzoni che per me (non “secondo me”, “per me”) sono il cuore di questo immenso disco doppio.

Come sapete, sono abbastanza insofferente ai pezzi-jam molto lunghi. Credo nella canzone pop di tre minuti come forma d’arte perfetta: strofa-ritornello-strofa-ritornello-assolo-ritornello (metteteci il bridge, se proprio volete). Ma in “Voodoo Chile” c’è qualcosa di più di una lunga session blues: Jimi ha praticamente rapito Steve Winwood (sentite il suo Hammond!) e Jack Casady, li ha portati (insieme a una ventina di persone che non c’entrano niente e che si sentono parlare e applaudire a un certo punto) ai Record Plant e (forse a loro insaputa) ha registrato il brano più lungo di tutta la sua produzione in studio, ricollegandosi alla lunga tradizione del blues “magico” di “Hoochie Coochie Man” e “Mannish Boy”, in un progressivo ringiovanimento dal “man” di Willie Dixon al “chile” (che sarebbe “child” scritto sbagliato), passando per il “boy” di Muddy Waters: la profezia iniziale, il ruolo della madre, talvolta sostituita o affiancata da una “gypsy” professionista, la potenza sessuale, il successo.

Willie Dixon

Willie Dixon (1915-1992): contrabbassista, cantante e soprattutto autore blues.

Gypsy woman told my mother ‘fore I was born / You got a boy-child coming, gonna be a son of a gun. / Gonna make pretty women jump and shout / And then the world gonna know what it’s all about. (Hoochie Coochie Man)

Now when I was a young boy, at the age of five / My mother said I was, gonna be the greatest man alive / But now I’m a man, way past 21 / Want you to believe me baby I had lots of fun/  I’m a man (Mannish Boy)

Well, the night I was born / Lord I swear the moon turned a fire red / The night I was born / I swear the moon turned a fire red / Well my poor mother cried out “Lord, the gypsy was right!” / And I seen her, fell down right dead (Have mercy) (Voodoo Chile)

Jimi, insomma, ci offre contemporaneamente un prezioso compendio di storia del blues, la sua interpretazione della tradizione e un atto di amore e di fedeltà nei confronti della musica più arcaica e misteriosa, da cui non si separerà mai (nessuno si separa mai dal blues). Ma allo stesso tempo ci sta dicendo per la prima volta in modo esplicito di avere bisogno di nuovi compagni di viaggio, di nuovi stimoli, di nuovi formati musicali, che ricercherà freneticamente nel poco tempo che gli resta (molto si favoleggia su cosa avrebbe potuto fare con il suo nuovo amico Miles Davis).

Kathy Etchingham

Kathy Etchingham, prima “fidanzata” londinese di Jimi. È la Catherine di “1983”

“1983… (A Merman I Should Turn to Be)” è una specie di sinfonia, organizzata in parti ben distinte. L’argomento è una favola che mischia fantascienza (una grande passione giovanile di Buster) e pacifismo, con venature (forse preterintenzionali) di ambientalismo (ma l’Artico che da silver blue diventa bloody red fa impresssione, diciamolo, specie in questi giorni di allarme sul global warming e alla vigilia del Cop 21): in breve, il mondo è in guerra e Jimi con la sua ragazza Catherine (un riferimento a Kathy Etchingham, la sua prima conquista londinese) decide di mettersi in salvo trasferendosi nel mare. Ma è soprattutto musicalmente che il brano sorprende: la cosa più bella è certamente la frase musicale, semplice e molto melodica – quasi una canzone nella canzone – che apre il brano e separa le strofe; strofe, invece, costruite su un’ardita scala cromatica discendente; e poi un “B” (non è propriamente un ritornello, perché ricorre due volte, ma di seguito) più rock. Dopo circa 4 minuti, con un bell’assolo, il brano potrebbe dirsi finito. Invece da qui parte un lungo intermezzo musicale quasi ambient (presumibilmente a questo punto nella storia siamo sott’acqua): io – lo avrete capito – sarei ampiamente soddisfatto, ma dobbiamo fidarci di Jimi. Il quale al minuto 11 ci riprende per mano con una nuova strofa (diversa dalle altre) e finalmente fa quello che volevamo dall’inizio: suona un bell’assolo sulla frase musicale di apertura. Poi ancora rumorini fino alla fine. Insomma: non proprio un pezzo pronto per essere trasmesso dalle radio FM, con i suoi quasi 14 minuti, ma ancora una volta, un gigantesco compendio dell’”altro” Jimi: quello più melodico, sognatore, utopista, quasi progressive.

All Along The Watchtower

Qualche versione di “All Along The Watchtower” presente nella mia libreria di iTunes.

Sulle cover version si potrebbe scrivere un libro, ammesso che qualcuno non lo abbia già fatto. Se escludiamo quelle mosse da opportunismo, la cover è il frutto di due grandi sensibilità che si sovrappongono: quella dell’autore e quella dell’interprete. La versione hendrixiana di “All Along The Watchtower” di Bob Dylan è la madre di tutte le cover, senza discussioni. Jimi, che ammirava moltissimo Dylan ma che – purtroppo – non ebbe occasioni di frequentarlo (vi immaginate?), prende un brano molto semplice (tre accordi dall’inizio alla fine, La minore, Sol, Fa, senza un ritornello) e dal testo meraviglioso e surreale, pieno di simboli, probabilmente il genere di testo che lui stesso avrebbe voluto scrivere, e ne fa qualcos’altro. Non modifica la struttura armonica, ma la riempie di magie chitarristiche, non necessariamente virtuosismi ma piuttosto “colori”, ne espande la dinamica, ci trova un senso quasi sconosciuto all’autore stesso (è il bello delle cover migliori), la canta con un’urgenza che la fa sembrare più sua che di Dylan. “All Along The Watchtower”, che era uscita pochi mesi prima su “John Wesley Harding”, diventa per sempre quella di Hendrix. E non solo tutte le successive cover del brano sembrano tributarie della versione di Hendrix; ma la stessa – meravigliosa – interpretazione di Dylan con The Band contenuta su “Before The Flood” (1974) lo è.

Hendrix da Bambino

Jimi da bambino con il padre Al.

È, in fondo, il trionfo dell’Hendrix più intimo e fragile, di Buster, del bambino abbandonato, del ragazzino di Seattle che si intrufolava ai concerti per sbirciare le star di allora. Così umile da affidarsi, per una volta, alla creazione di un altro “più bravo”: rivelando, nel farlo, la sua grandezza che non smette di risplendere dopo quarantacinque anni.