un disco all'anno: 1967 (quello vero)

“Disraeli Gears”: il trionfo dei Fantastici Tre

1 Novembre 2015

Ho fatto casino.

Nessuno se n’è ancora accorto, ma io sono un tipo onesto e preferisco fare coming out: Truth non è del 1967, bensì del 1968. Quindi adesso ci troviamo con un problema più complicato di quanto potrebbe apparire a prima vista.

Truth - Jeff Beck Group (1967)

Truth – Jeff Beck Group (1967)

La soluzione più semplice, infatti, sembrerebbe consistere nel modificare il post su Truth scrivendo 1968 tutte le volte che c’è scritto 1967 e scriverne un altro per il 1967. Ma non funziona. Perché riportando Truth fra i suoi veri concorrenti (cioè i dischi usciti nel 1968) non è detto che risulti il mio preferito. Quindi dopo un lungo silenzio imbarazzato (parzialmente colmato dal best seller su Chuck Jura) ho deciso di scrivere due nuovi post, uno (questo) per il 1967 e uno per il 1968. Quello su Truth rimarrà lì, come una specie di Gronchi Rosa, l’errore che rende la serie più preziosa, a imperituro memento di come sia buona regola ricontrollare date e nomi anche quando si è sicuri.

E adesso al lavoro.

Eric Clapton negli anni '60.

Eric Clapton negli anni ’60.

Avevamo lasciato Eric Clapton (eh, sì, ci risiamo) alle prese con il British Blues e il capolavoro definitivo del genere, Bluesbreakers. Avevamo anche detto che in quel periodo, il giovane Eric (nato nel ’45, quindi un ragazzino più o meno come Alessio Romagnoli) era piuttosto insofferente, in aperto contrasto con la sua immagine pubblica anni ‘80/’90/’00/’10, di distinto gentiluomo che di tanto in tanto lascia gli ozi di Antigua per regalarci un dischetto piacevole e ben suonato. Eric, infatti, molla gli Yardbirds perché sono troppo commerciali, ma non riesce a fermarsi nemmeno alla corte di John Mayall. Mentre Bluesbreakers esce, a luglio del 1966, probabilmente Eric è già in sala prove con Jack Bruce e Ginger Baker per mettere a punto il loro album di debutto, Fresh Cream. Che, secondo me, non è un gran disco o, meglio, non è il disco che avrebbe potuto essere.

L’armamentario stellare dei Cream, però, è già tutto lì: la voce di Jack Bruce, che introduce un modo di cantare già quasi hard-rock, il drumming di Ginger Baker, così in primo piano (prima chi li sentiva, i batteristi?), e naturalmente la Gibson di Eric Clapton, che rispetto all’album precedente si è fatta ancora più “fat”, grassa (i chitarristi all’ascolto sanno che cosa intendo) e distorta. Ma soprattutto, i Cream nel loro complesso al di là del loro immenso talento individuale, stanno inventando due o tre format musicali che entreranno nel dizionario del rock: per esempio il power-trio (tre musicisti, segnatamente un bassista un chitarrista e un batterista, che non solo fanno tutto, ma fanno anche un gran volume di casino); per esempio il supergruppo (musicisti che arrivano da esperienze precedenti in virtù delle quali sono già famosi e apprezzati); per esempio l’hard rock (non serve spiegare).

Bruce, Baker, Clapton. Nasce il supergruppo.

Bruce, Baker, Clapton. Nasce il supergruppo.

Che cosa manca, allora, perché si possa parlare di capolavoro? Il repertorio, che diamine. Con qualche eccezione, come “I Feel Free”, che peraltro non compare nell’edizione inglese e neppure su quella italiana che ho io, i pezzi di Fresh Cream sembrano quasi tutti dei filler, dei riempitivi. Ci sono alcuni pezzi blues, ma sono forse i meno interessanti dell’album: come la lunga session mono-accordo di “Spoonful”, di Willie Dixon; come “Rolling And Tumbling”, di Muddy Waters, trasformata in una quasi-cacofonia stridente dominata da armonica e piatti; come l’abbastanza inutile “I’m So Glad”, di Skip James. E poi il decisamente inutile strumentale “Cat’s Squirrel” (anche sul disco di debutto dei Jethro Tull! Boh) e il solo di batteria (“Toad”) che diventerà un topos ineludibile per tutti gli anni settanta.

Insomma, per sentire la poderosa macchina sonora dei Cream confrontarsi con brani alla loro altezza occorrerà attendere il capitolo successivo della brevissima saga. “Dateci un annetto”, sembrano dirci i tre compari.

Disraeli Gears

Disraeli Gears (1967). Il capolavoro dei Cream.

“Disraeli Gears” esce a fine 1967, e si apre con un uno-due che non ammette repliche. “Strange Brew” e “Sunshine Of Your Love” sono quanto di meglio i Cream abbiano prodotto (con la sola eccezione di “White Room”, che da sola impone l’acquisto di Wheels Of Fire). Entrambi i brani hanno evidenti radici blues (nel giro armonico, nel riff), ma qui – finalmente – il blues è stato assimilato, sminuzzato, digerito e restituito come ingrediente di qualcos’altro. È quel proto-hard-rock-psycho-blues senza il quale non avremmo avuto Jimi Hendrix, i Led Zeppelin e un po’ di altre cose così. È la musica dei Cream, unica e inarrivabile.

Anche qui c’è qualche lungaggine e qualche brano non proprio indispensabile, come “Blue Condition”, a firma di Ginger Baker, che sembra messo lì apposta per poi poter dire: “Vedi Ginger, ti abbiamo fatto scrivere un pezzo così adesso capisci che non devi più chiederlo”, c’è qualche divertissment abbastanza assurdo come “A Mother’s Lament”. Certo. Però anche la seconda facciata dell’album si apre con una coppia da brividi: “Tales Of Brave Ulysses” e (soprattutto) “Swlabr” (un acronimo che sta per She Was Like A Bearded Rainbow: chiaro, no?) ci mostrano la perfezione raggiunta dai Cream: voce, melodie, stacchi intelligenti e perfetti e – specie nel secondo dei due brani – la chitarra di Clapton con un timbro pieno e rotondo che asseconda e completa alla perfezione la voce di Jack Bruce, un po’ come accadeva – ricordate? – per Jeff Beck e Rod Stewart.

C’è, infine, un ultimo elemento per cui questo album figura nella lista dei miei ultra-preferiti. E lo vedete – se aguzzate la vista – nella foto qui sotto. La mia copia di Disreali Gears (un bel vinile spesso, di quelli che adesso vengono pomposamente definiti “180 grams audiophile edition”,  stranamente di fabbricazione americana) l’ho acquistata – usata – da Brighton Rock, un negozietto di dischi usati di Brighton (appunto), scomparso molti anni fa.

Brighton Rock

La mia copia di Disraeli Gears, comprata usata in un negozietto di Brighton, UK.

Un dettaglio che mi ha scaraventato indietro, ad anni (primissimi ’80) di vacanze studio in Inghilterra: e mi ha fatto pensare con tenerezza a quando insieme al mio amicone Steno impiegavo buona parte del tempo libero e dei (pochi) soldi che – in nome della mia istruzione – la mia famiglia, anche in tempi molto duri, riusciva a mettermi in tasca dopo avere (eroicamente) pagato la non simbolica retta della vacanza, per rovistare in negozi polverosi nel tentativo di costruirmi un po’ di cultura musicale.

Beh. In fondo, anche se ero un po’ scansafatiche, oggi possiamo dire che non li ho spesi poi tanto male i vostri soldi, mamma e papà: per l’inglese mi fanno sempre i complimenti. E tre sterline e cinquanta per questo capolavoro mi sembrano un prezzo onesto, no?