Un disco all'anno: 1972

“Harvest”, in viaggio con Neil

12 Settembre 2016

HarvestAvete presente quei viaggioni in auto in cui c’era una sola cassetta da ascoltare?  Non si sa di preciso perché: tutti avevamo delle altre cassette, o avremmo potuto registrarle per l’occasione, ma per qualche ragione arrivavamo impreparati. E così ci si trovava chiusi in una macchina, ostaggi di un album che – bene o male – finiva per girare in loop all’infinito, specie di notte, le alternative essendo il silenzio (a tutto vantaggio del colpo di sonno di chi guidava) o una radio sintonizzata male.

La caratteristica del “viaggione”, infatti, era la copertura del maggior numero possibile di chilometri nottetempo: perché buttare via una giornata, si diceva, per fare mille chilometri? Partiamo alle dieci di sera, alla mattina siamo a [aggiungere meta] belli pimpanti, pronti per la visita alla città. Altri tempi, altri fisici: ora al solo pensiero sento partire l’emicrania.

Tipo questa.

Tipo questa.

E proprio così, l’ultima settimana di agosto del 1981, una sera parto per Parigi sul quasi inaccessibile sedile posteriore di una Opel Manta due porte. Oltre a me, il mio amico Maurizio, un suo amico che aveva conosciuto durante l’estate, più grande di noi che siamo ancora minorenni, proprietario della Opel Manta e buon giocatore di basket, e un amico dell’amico, simpatico, del quale ricordo solo che suona uno strumento chiamato flicornino (esiste, esiste).

Agosto 1981 - Con Maurizio a Parigi

La vacanza a Parigi, per la precisione in un campeggio all’interno del Bois de Boulogne, non andrà complessivamente benissimo: la compagnia di semisconosciuti, assemblata forse un po’ ottimisticamente, a un certo punto si spezza in due e io passo gran parte del tempo con Maurizio (il che ovviamente non fa che rafforzare la nostra amicizia). Al ritorno siamo tutti un po’ più imbarazzati rispetto a quando eravamo partiti, gli altri due non li vedrò più.

E il disco o, meglio, la cassetta? È “Harvest”, il capolavoro (uno dei) di Neil Young. Un disco già classico (ha nove anni), che io conosco ma che forse non ho capito fino in fondo. È lì, senza ragione apparente, nell’autoradio della Manta (al cui proprietario sospetto non importi nulla della musica, altrimenti avrebbe altre cassette) come avrebbero potuto esserci “Greatest Hits” di Simon & Garfunkel o, dieci anni dopo, “Blue’s” di Zucchero. Una cosa è certa: “Harvest”, dopo, non sarà più lo stesso.

“Harvest” è un album che ha contribuito a creare un genere (il country-rock), o addirittura qualcosa di più grande, come il suono dell’America degli anni ‘70. È un disco del quale si potrebbe parlare pressoché all’infinito: per l’incredibile livello qualitativo dei brani (a parte “A Man Needs A Maid”, quel pezzone con l’orchestra che mi ha sempre fatto quasi paura e che salto sempre volentieri), per il modo in cui è scritto, suonato, cantato, arrangiato.

Parlare di Harvest significa parlare di brani leggendari che tutti abbiamo in mente, come “Heart of Gold”, “Old Man”, “The Needle And The Damage Done”, che per molti di noi è stata la prima canzone non solo a parlare esplicitamente dell’eroina, ma anche a chiederci di evolvere leggermente la nostra tecnica chitarristica, almeno rispetto a “Blowin’ In The Wind” e “La Locomotiva”; di “Alabama”, che avrebbe innescato una poderosa polemica con i Lynyrd Skynyrd (ma secondo alcune ricostruzioni il brano incriminato è “Southern Man”), i quali avrebbero risposto piuttosto piccati in “Sweet Home Alabama” che “gli uomini del Sud non lo vogliono tra i piedi”, anche se in fondo loro e Neil si stimavano e si volevano un gran bene; della stessa title-track, “Harvest”, quel valzerino dal  testo semplice eppure enigmatico. Eccetera.

"And buy a pick-up".

“And buy a pick-up”.

Ma per me Harvest è soprattutto il brano che apre il disco (e quindi il “viaggione”). È “Out On The Weekend”, con il suo testo programmatico (per Neil e in fondo per tutti noi), che dà il tono a tutto l’album, in fondo dedicato proprio al viaggio: “Think I’ll pack it in and buy a pick-up”. Il bisogno di cambiare, di smontare la propria vita e di ricominciare da un’altra parte (“start a brand new day”). E tutto, prima ancora che Neil inizi a cantare, è già lì, in un istante preciso: quando, a quindici secondi esatti dall’inizio, l’armonica entra sull’accordo di Si minore, con un effetto che – non so a voi – a me spezza il cuore. Riascoltatelo, quel momento. E immaginate quella nota di armonica (un La, secondo i miei calcoli) di notte, in autostrada, a sedici anni, andando per la prima volta a Parigi.

Per me “Harvest” è questo, oltre a tutto il resto: il viaggio, la scoperta, la notte, l’amicizia, la gioventù. È quella capacità della musica di farci rivivere un ricordo con tale forza che, a distanza di anni, provoca una specie di dolore al petto: un dolore che non si sa spiegare, che un po’ fa male, un po’ è bello.