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Perché una volta all’anno andiamo a Roma

22 Giugno 2013

VialeFulvioTestiAnni60Nell’estate del 1971 i primi inquilini prendono possesso dei loro appartamenti in un grande palazzo alla periferia nord di Milano. Sono prevalentemente giovani famiglie con figli: genitori fra i 30 e i 40 anni, bambini un po’ di tutte le età, ma con un nutritissimo gruppo di nati nel ’64, seguìto a ruota dalle annate adiacenti. Sono, non a caso, gli anni del boom demografico in Italia (credo che il ’64 sia in assoluto la generazione più numerosa nel nostro Paese) in cui il saldo fra nati e morti ammonta a diversi milioni di individui (mentre oggi, per capirci, è zero).

[Edit: andavo a spanne ma sì, direi che è proprio il 1964]

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È uno strano palazzo, quello. Perché è abbastanza elegante, pur in una zona decisamente popolare: ogni scala ha due ascensori, uno “padronale” (si dice così anche se, come vedremo, non ha molto senso) e uno di servizio; gli appartamenti hanno due ingressi, sono spaziosi, hanno il parquet, due balconi, tre bagni, un vasto piano sotterraneo destinato ai garage. Ma non è di nessuno. O, meglio, è delle Assicurazioni Generali ed è in affitto. A equo canone. E questo istituto un po’ sovietico (difficile oggi, persino in Italia, immaginare un bene privato affittato a privati a prezzi imposti dalla legge) genera un mix di inquilini piuttosto eterogeneo. Ci sono famiglie abbienti, per le quali l’affitto a equo canone è una bella opportunità per non immobilizzare capitali nell’acquisto di una casa o, come fa qualcuno, per comprarne altre, magari a scopo di investimento, pur continuando a vivere lì. E altre, meno benestanti, che i soldi per comprare un appartamento non li avrebbero, ma in qualche modo riescono a pagare l’affitto, ottenendone in cambio di vivere in una casa confortevole.

I numerosissimi bambini (gli appartamenti sono quasi duecento) giocano insieme nel cortile posteriore (il verde, sul davanti, è ornamentale e rigorosamente off-limits): tantissimo calcio, su un asfalto che pare studiato per asportare la pelle con la massima efficacia, ma anche corse in bici, a piedi, battaglie con le pistole ad acqua, “olimpiadi” e “giochi senza frontiere” (agoni multidisciplinari ideati e gestiti dai più grandicelli, tipicamente la potente lobby dei nati nel ’62). Vanno nelle stesse scuole. Si lasciano e si ritrovano di continuo, come i fili di una grande treccia: magari frequentano scuole elementari diverse, ma si ritrovano alle medie; poi ancora licei diversi, e la stessa università, e così via in tutte le varianti possibili. Giocano a basket, calcio, pallavolo, fanno atletica, all’oratorio o nelle società sportive della zona: ed è, di nuovo, tutto un incontrarsi e riperdersi. Si incrociano entrando e uscendo, si danno appuntamento il sabato mattina per andare a comprare il giornale e fare “un giretto”. Nel Palazzo (da ora in avanti lo scrivo maiuscolo, è uno dei personaggi principali di questa storia) come avete capito sono vissuto per molti anni. E il Palazzo sarà a lungo una specie di paese dentro la città: tutti si conoscono, specie quei primi arrivati nel 1971. Nascono grandi amicizie.

1973CasaVillani

 

Stacco. Primavera del 1993. Stesso Palazzo. Io vivo con i miei genitori: ho avuto – diciamo così – una piccola discontinuità nel lavoro e mi arrangio facendo il giornalista free-lance. Per questo quella mattina sono a casa. Trovo una busta nella casella della posta. Con una letterina dal tono scherzosamente aulico, il mio amico Maurizio (uno dei “pionieri” arrivati nel ’71, aristocrazia pura) mi scrive che avrebbe voluto annunciarmi la cosa “attorno a un’agape imbandita, ma tant’è”, non c’è stato tempo (Maurizio, lui sì, si dà da fare: a 29 anni insegna alla Sda Bocconi). Mi chiede di “fargli da testimone per l’evento di cui lei sa”: si sposa, fra poco. A Roma. È il primo di noi. Si va, insieme ad altri due amici (che abitano nel Palazzo, neanche a dirlo), Steno e Andrea.

Partiamo il sabato mattina. Arriviamo a Roma nel pomeriggio. Maurizio ci mette a disposizione un appartamento di un amico della sposa momentaneamente libero (ma in realtà il padre del proprietario, non sapendo della nostra presenza, si introdurrà in casa facendoci prendere uno spavento memorabile: da allora, nei racconti, diventerà “L’Etrusco”, come in un romanzo horror-archeologico di fine ’800).

Duomo di OrvietoAlla sera Maurizio ci viene a prendere a casa. È la sua ultima cena da scapolo. «Vi secca fare un po’ di strada?». Certo che no. Chi si opporrebbe alla richiesta dello sposo, per di più disponendo di una macchina potente (del padre di Steno) e della sana euforia di un momento irripetibile? «Allora andiamo a Orvieto, c’è un posto che mi piace». Ah, però. Orvieto. La Saab 9000 sfreccia a 200 all’ora sull’autostrada (non c’erano i controlli di adesso). Ceniamo alla Trattoria La Volpe e l’Uva. Torniamo tardi, stanchissimi. L’indomani Maurizio si sposa in Campidoglio, io faccio il testimone per la prima volta nella mia vita e appongo orgoglioso la mia firma sul registro. Poi, dopo una bella festa in una villa sull’Appia Antica, torniamo a Milano. Evviva.

2006LaVolpeELuvaAltro stacco. Agosto del ’95. I miei genitori sono a casa, a Milano. Incontrano i genitori di Maurizio e chiacchierano a lungo (potenza del Palazzo: si incontra sempre qualcuno, anche in pieno agosto): apprendono così – fra l’altro – che Roberto, il fratello minore di Maurizio, si trova a Parigi dove inizierà a lavorare in una multinazionale. Il giorno dopo mio padre esce per comprare il giornale e – sorpresa – incontra proprio Roberto . «Cosa fai qui, non eri a Parigi?», gli chiede affettuosamente. La risposta che riceve gli pare incongrua, e poi lui non ha un udito perfetto, ma l’espressione del ragazzo è tale che non osa domandare di nuovo. Torna veloce a casa e racconta a mia madre: «Mi è parso di capire che abbia detto: “Mio fratello è morto”. Ma non so, non è possibile, forse ho capito male». Mia madre si fa coraggio e telefona alla madre di Maurizio. È più che possibile. È certo.

Maurizio era in vacanza, in Sudafrica. Guidava un’auto presa a noleggio: a quanto si è capito era dietro a un dosso e un pulmino che procedeva nella direzione opposta, invadendo quasi completamente la sua corsia, lo ha centrato in pieno, senza che lui – da dietro al dosso – lo vedesse arrivare e potesse quindi provare a evitarlo. Morto sul colpo. La moglie è quasi illesa, almeno fisicamente.

Io sto tornando dalla Francia, dove ho passato le vacanze con Simona, la mia futura moglie. Faccio tappa a Sestri Levante, telefono a casa da una cabina (non ci sono i telefonini o forse ci sono ma io non ne ho uno) e mia madre mi racconta l’indicibile.

19820628Gargano

Torno a Milano. Faccio un bel respiro e mi presento a casa dei genitori di Maurizio, primo fra i vecchi amici. Scala sette, quarto piano. Quando qualcuno muore, specie se in circostanze tragiche come queste e non di vecchiaia, ci si fa spesso l’idea che sia meglio “non disturbare”. Ma io credo che sia una scusa, che abbiamo un po’ di paura: ho imparato (purtroppo) che un gesto di vicinanza è sempre apprezzato, che sentir parlare con affetto della persona scomparsa è l’unica cosa che può – per quanto – consolare.

18910824ParigiLa mamma di Maurizio me lo conferma, abbracciandomi senza riserve quando apre la porta e si trova davanti il primo bambino che Maurizio ha picchiato, nell’estate del 1971 (gli avevo detto che andare sui pattini a rotelle mi pareva da femmina), il compagno di mille avventure – dall’atletica al basket, dalla prima vacanza da soli (a Levanto, in campeggio, nel 1979, sotto la pioggia per metà vacanza e ustionati dal sole per l’altra metà) al primo viaggio a Parigi (1981), passando per imprese adolescenziali al limite dell’incoscienza, come il giro del Gargano in bicicletta (con una bici senza cambi, mica gli Shimano a 18 rapporti che sarebbero venuti poco dopo!) – e, da ultimo, il testimone di nozze troppo brevi.

Inutile dire del funerale. Quando muore un ragazzo di 31 anni è uno strazio, e basta. Se ripenso a suo padre che, asciutto e quasi brusco, tocca la lastra di marmo, dice “ciao, Mau” e viene via, mi spacca qualcosa dentro ancora adesso. Anzi, adesso – che sono padre – più di allora.

201306MauLambrateQuesta è la storia. Ecco perché ogni anno, dal 1996, Andrea, Steno e io (sì, i tre del matrimonio) tra la fine di giugno e l’inizio di luglio rifacciamo lo stesso giro. Ci troviamo il sabato mattina, andiamo al cimitero di Lambrate, dove portiamo una rosa a Maurizio, che ci sorride eternamente giovane, appoggiamo il pallone da basket (il suo e nostro sport preferito) alla lapide e poi partiamo. Alla sera ceniamo a Orvieto, alla Trattoria la Volpe e l’Uva (che nel frattempo ha cambiato gestione – più volte – e nome). Ammetto che dormiamo a Orvieto, e non a Roma: la folle corsa di quella sera del ’93 è meglio non farla più, in tempi di Autovelox ed etilometri.

2013RistOrvieto

A Roma ci andiamo la mattina dopo: caffè al bar sotto il Campidoglio, come allora; poi saliamo le scale, guardiamo quelli che si sposano, commentiamo le spose e le damigelle, facciamo una foto, un giro per Roma e ripartiamo.

201306NoiTre

Abbiamo introdotto qualche variante, che poi è stata codificata in un protocollo molto rigido. Abbiamo aggiunto un giorno, il lunedì, perché la domenica era troppo triste, con il pensiero del ritorno e della coda in autostrada che si faceva largo già dalla mattina. Il lunedì andiamo al mare: con il matrimonio di Maurizio non c’entra, ma in qualche modo la liturgia si è arricchita, come quei rituali pagani che nei secoli sono diventati cristiani senza che nessuno sappia più distinguerne le stratificazioni.

2010Cervia

Nel frattempo ci sono stati fidanzamenti, matrimoni, figli, separazioni, acciacchi, occhiali in più, capelli in meno: non è stato facile trovare ogni anno un weekend che andasse bene a tutti, ma lo abbiamo trovato. Ci sono stati periodi in cui mi pareva che del “Memorial” (così lo chiamiamo) importasse solo a me: mi sono sentito molto ferito (e probabilmente ho ferito involontariamente i miei amici, cui invece importava), abbiamo litigato, ci siamo spiegati, ci siamo capiti. Siamo andati oltre. Il Memorial è diventato parte di noi, ineluttabile. A nessuno dei tre verrebbe in mente di chiedere se andremo anche l’anno prossimo. Il giorno dopo essere tornati iniziamo a parlare del successivo.

Disegno Ludovica

Noi tre in macchina per il “Memorial”. Disegno di Ludovica, primi anni duemila.

A dicembre facciamo una cena di Natale e la prima cosa che ci diciamo è: “Mancano solo sei mesi”. A marzo facciamo un’altra cena durante la quale tradizionalmente fissiamo le date. Ogni anno, la notte prima di partire, io preparo le playlist dei brani da sentire in viaggio. Credo che andremo avanti per sempre. Per un verso faccio fatica a immaginarci a settant’anni che arriviamo con le borse, le infradito, il pallone da basket e prendiamo le chiavi delle nostre tre singole (una volta dormivamo nella stessa stanza, è stata l’unica concessione all’età), ma d’altra parte sono abbastanza sicuro che lo faremo.

E così, mi pare, Maurizio è diventato per noi una specie di divinità pagana, simile ai lari e ai penati dei nostri antenati romani: la divinità della gioventù, dell’amicizia, del tempo che passa, così misterioso e incomprensibile.

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