Politica

A che cosa servono le primarie (a Milano, ma non solo)?

9 Gennaio 2016

Facciamo un paio di passi indietro. Abbiate la pazienza di tornare con me al 2012, diciamo nell’autunno. Immaginiamo di essere con Bersani nel suo ufficio. Tra poco si terranno le primarie “Italia. Bene comune” per la scelta del candidato premier del centrosinistra alle Politiche del 2013.

Noi: “Pierluigi, tu lo sai, vero, che per qualche ragione Renzi catalizza su di sé la preferenza di un grandissimo numero di persone che non hanno mai votato a sinistra, o che hanno smesso di farlo? Lo sai che si parla di percentuali intorno al 40 o addirittura al 50 per cento? Il momento è particolare, il centrodestra è in crisi, di Grillo non si capisce ancora molto: qui si presenta un’occasione irripetibile. Però non puoi essere tu a cavalcarla: a torto o a ragione, tu fai parte del vecchio”.

B. “Che cosa mi state dicendo: che dovrei dare il via libera a Renzi? Lasciare che il nostro candidato sia lui?”.

N. “Esatto, Pier”.

B. “Ma siete pazzi? A parte la questione di prestigio personale, io con Renzi sono in disaccordo su molte cose, ho proprio una visione della società diversa. Mi sta anche sulle balle…”.

N. “Sì, Pier. Non è facile. Ma facciamo un gioco. Diciamo che alle elezioni tu non ottieni un grande risultato. Diciamo che si arriva tutti e tre molto vicini e poi devi negoziare. Preferisci negoziare con Renzi, che nel frattempo avresti sostenuto lealmente e che quindi qualcosa ti deve, preferisci essere il segretario del partito che ha stravinto le elezioni che sanciscono la fine del berlusconismo; o preferisci negoziare con Crimi e la Lombardi, perché Grillo nemmeno ti riceverà, i quali ti sfotteranno? O con Berlusconi e Brunetta? Fidati di noi, Pier. La nostra è più di una sensazione: adesso non possiamo spiegarti tutto”.

B. “Grandi, ragazzi: mi avete convinto. Si vince alla grande e finalmente si governa senza alibi. Qui rifacciamo l’Italia, entriamo nella storia”.

Pierluigi Bersani.

Pierluigi Bersani. Meglio un governo con Crimi o con Brunetta?

No. Pierluigi Bersani non si fida dei viaggiatori nel tempo e le cose vanno come sappiamo. E in realtà viaggiare nel tempo non servirebbe nemmeno. Che Renzi stravincerebbe quella tornata elettorale politica all’epoca lo si intuiva facilmente e lo suggerivano i sondaggi: e lo ha dimostrato il risultato delle elezioni europee del 2014, quando Renzi, nelle peggiori condizioni possibili – si è già sporcato le mani con la politica “di palazzo”, ha appena fatto fuori Letta e non ha ancora grandi risultati di governo da presentare agli elettori –  ottiene il risultato più alto della storia della sinistra italiana: 40,8%, 31 seggi, primo partito in Europa.

Quindi?

Quindi veniamo al tema. Fra poco meno di un mese, il 7 febbraio, a Milano si tengono le primarie per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra. Detto che a Milano avremo – credo – comunque un candidato decoroso, l’occasione mi pare propizia per farsi la domanda: a che cosa servono le primarie?

Majorino-Sala-Balzani

Majorino, Sala, Balzani: tre buoni candidati. Ma chi ci farà vincere le elezioni vere?

Per scegliere il candidato sindaco, certo. Ma con quale criterio?

I criteri possono essere due. Il primo: voto il candidato più vicino alle mie idee. Il secondo: voto il candidato che ha più probabilità di vincere le elezioni vere, le amministrative in questo caso.

(Anche se nessuno ammetterà mai di appartenere alla prima, cioè di correre per perdere, è evidente che – invece – il voto di testimonianza, quando non addirittura di mero disturbo, esiste eccome. Lo sappiamo, non serve spiegarlo).

Io credo fermamente che le primarie servano davvero a scegliere il candidato che può vincere le elezioni, e non solo rappresentare una certa parte. Rappresentare la propria parte – diciamolo chiaramente – è un limite, non un pregio. Lo è a maggior ragione in Italia, dove il voto è ideologico (anche se non riusciamo ancora a capacitarcene, Berlusconi ha fatto politica con successo per vent’anni puntando sul potere unificante dell’anticomunismo, non dimentichiamolo), dove il pendolarismo elettorale è basso, e ancor più a Milano, che è una città cautamente riformista (nella migliore delle ipotesi) che per tanti anni ha votato a destra (una destra a mio avviso invotabile, ma tant’è) senza nemmeno perdere tempo a turarsi il proverbiale naso.

La lezione inglese è davanti ai nostri occhi. La sinistra ha scelto di farsi rappresentare dal più radicale dei fratelli Milliband, Ed. Permettendo così a David Cameron – in forte difficoltà – di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi nel 2015, sbarazzandosi così anche dell’influenza del partito liberale, che mitigava leggermente l’ultraliberismo Tory (come Tony Blair, che vi piaccia o no, aveva ampiamente previsto). La scelta del candidato “sbagliato”, paradossalmente, non solo ha fatto perdere le elezioni: ha addirittura modificato in peggio (o in meglio, dal punto di vista della destra) la coalizione vincente! Per tutta risposta gli amici del Labour hanno eletto il “duro e puro” Jeremy Corbyn e Cameron ha fatto sapere che conta di governare per vent’anni.

E allora? E allora se si è davvero di sinistra bisogna votare il candidato che prenderà (anche) i voti non di sinistra. Perché da sola la sinistra non vince e non governa, e infatti in Italia è stata all’opposizione dal 1948 al 1996, quando scelse di farsi rappresentare da un tosto democristiano (e anche quella volta non andò bene, grazie alla sinistra “identitaria”). Eppure basta leggere i commenti su Facebook: appena un candidato apre a settori dell’elettorato “altro”, invece di dirgli “bravo, così magari vinciamo”, parte il riflesso condizionato della difesa identitaria: “Ma chi li vuole, quelli?”. Quelli sono gli elettori. Sono quelli che non ti votavano. Sono quelli che ti faranno vincere. Che ti faranno realizzare il tuo programma. Tutto? No, non tutto: una buona parte. Qualcosa, magari, bisognerà negoziare, lasciare sul terreno. Invece, se vincono gli altri, si lascia tutto. E poi si fa una faccia di circostanza, magari in streaming.

Fate voi.