Un disco all'anno: 1966

Bluesbreakers: Eric Clapton, il blues, la chitarra (e Leopardi)

13 Settembre 2015

Blues Breakers - John Mayall With Eric Clapton

Blues Breakers – John Mayall With Eric Clapton

In un’alternanza perfetta, saltiamo dall’America all’Inghilterra, dal mercuriale poeta folk alla solida fabbrica musicale del caporeparto John Mayall, uno che non ha fatto i soldi ma ha lanciato grandi talenti, come il settore giovanile dell’Atalanta. Se l’album del 1965 non poteva che essere Highway 61 Revisited” di Bob Dylan, quello del 1966 è per forza di cose “Bluesbreakers”, il disco che definisce il blues bianco.

E se “Like a Rolling Stone” apriva il disco con due colpi di batteria, qui ne basta uno: una botta secca sul rullante e parte “All Your Love”, un brano di Otis Rush famoso per essere due brani insieme (uno lento e uno veloce), costruito come uno showcase per le sue doti chitarristiche, che, a maggior ragione, prende fuoco fra le mani di…

Ma andiamo con ordine.

Il vecchio coach John Mayall (è del 1933) è il fratello maggiore di tutti, ha fatto la gavetta nella scena jazz-blues inglese

L'autore con il Mago della Bovisa, Osvaldo Bagnoli

L’autore con il Mago della Bovisa, Osvaldo Bagnoli

e con questo disco realizza il suo capolavoro assoluto, paragonabile (ok, poi la smetto con le metafore calcistiche, giuro) allo scudetto del Verona nell’85. Mayall come Osvaldo Bagnoli, per un risultato irripetibile. Una squadra fortissima mista di vecchio e nuovo, di mestiere e talento, un repertorio perfetto e stringato (l’album vero dura 37 minuti, non quelle pippe di due ore dei Cd ristampati e rimasterizzati con 20 outtakes che nessuno ha chiesto), una produzione asciutta e – direi – moderna, tutta tesa a valorizzare la musica e i musicisti. E poi, su tutto, la chitarra di Eric Clapton. Che qui, a 21 anni da poco compiuti, era già una star e aveva già lasciato gli Yardbirds perché li riteneva troppo commerciali o, meglio, troppo poco blues.

Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi (1798-1937). Il più grande.

“Quello che si può fare con una Gibson Les Paul e un amplificatore Marshall, lo ha fatto Clapton in Bluesbreakers: il resto è ripetizione”, ha detto Jimmy Page (Jimmy Page!). Siamo di fronte a un caso classico di iper-intelligenza artistica: Clapton, pur giovanissimo (e senza Spotify, ricordiamolo), sembra avere ascoltato, capito, assimilato tutto quello che è stato fatto nel campo della chitarra blues, al punto di rielaborarlo in modo originale, di distillarlo (non da solo, ma certo con una quota rilevante) in quello che oggi chiamiamo British Blues. I suoi assoli (specie su un paio di blues lenti, “Double Crossing Time” e “Have You Heard”) e il suo suono sono definitivi, nel genere: con pochissime eccezioni, forse una, il massimo che un chitarrista blues potrà fare, negli anni a venire, sarà avvicinarsi a questo standard. È il “problema” (se così vogliamo definirlo) del grandissimi: dove passano loro, non cresce più l’erba. Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto un altro grande poeta romantico? Perché Giacomo Leopardi lo è stato in modo così assoluto e totale da non lasciare spazio per nessuno e niente di simile.

È un attimo: anche se spesso tendiamo a etichettarlo come un chitarrista blues, Clapton, con la velocità e la furia quasi distruttrice tipica dei grandi artisti, non si fermerà a lungo su questo linguaggio. Alla fine dello stesso anno ci saranno già i Cream, poi i Blind Faith, Derek and the Dominos, quindi una lunga serie di album solisti che mischiano country, rock, pop, reggae e naturalmente blues. Sembra un paradosso, ma per ascoltare un album blues dall’inizio alla fine dovremo aspettare “From the Cradle”, del 1994, quasi trent’anni dopo. Il blues, ovviamente, non mancherà mai nei dischi di Clapton, ma sempre come una parte, forse la più importante, del suo peculiare mix.

La mia scoperta di Eric Clapton avviene proprio attraverso uno dei suoi migliori dischi solisti: a un certo punto, verso la fine degli anni ’70, “461 Ocean Boulevard” (che era uscito prima, nel 1974) fa irruzione della mia vita per il tramite di una cassetta registrata dal mio amico Gabriele, a lungo compagno di scoperte musicali e di avventure chitarristiche. Siamo sostanzialmente fermi ai cantautori italiani, al massimo un po’ di Bob Dylan e di Neil Young, rigorosamente acustici, quando nel mio registratore arriva un album dove a essere protagonista non è il testo, o la voce, ma sono gli strumenti: la chitarra, certo, ma anche la batteria, il basso, l’insieme, l’arrangiamento. È il rock, dove conta sapere chi suona cosa, non solo chi canta. E dove, logicamente, il chitarrista solista è il sole intorno al quale tutto gira. È un salto di qualità. È la preparazione a tutto quello che verrà (e che scoprirò) dopo.

Eric Clapton

Eric Clapton nei primi anni ’70.

Da allora, comincerò a seguire la carriera di Eric Clapton nelle due direzioni: in avanti, con “Just One Night”, il bellissimo album doppio registrato al Budokan Theatre di Tokyo, comprato – finalmente “in diretta” – nel 1980, e da lì “Another Ticket”, e poi quasi tutto, il buono e il meno buono, gli scivoloni un po’ plasticosi e i grandi ritorni; e indietro, con la scoperta dei Cream – e di quegli assoli infiniti – di “Layla”, del Rainbow Concert, degli Yardbirds e, appunto, di “Bluesbreakers”, per una volta comprato subito in vinile e non profanato attraverso la cassettina C-60 pluri-registrata. Che, riascoltato oggi, stupisce ancora.

Merito, certo, del vecchio allenatore/cantante/armonicista e del giovane talento, ma anche di una sezione ritmica straordinaria: il bassista John McVie (sarà il “Mac” dei Fleetwood Mac, nientemeno) e il solido batterista Hughie Flint, un veterano della scena blues inglese, che percorrerà in lungo e che un giorno incontrerò al Palalido con la Blues Band, ovvero il tentativo (a tratti ben riuscito) di tenere in vita il British Blues e il pub-rock inglese fino agli ’80 e ’90.

L’album ci regala anche una curiosa primizia: Clapton cantante solista. Avviene in “Rambin’ On My Mind”, un blues tradizionale di Robert Johnson, qui eseguito solamente con piano e chitarra elettrica. La voce di Eric, un po’ timida e sforzata sugli alti (forse per emulazione di Mayall) non è male: per risentirla – a parte la singola frase “Yes I’m with you my love, it’s the morning and just we two” nel brano “Sunshine of Your Love” di “Disraeli Gear” dei Cream – occorrerà aspettare quattro anni e il già citato “Layla and Other Assorted Love Songs”, un altro capolavoro isolato e irripetibile datato 1970. Mi sa che ci vediamo lì.