Musica

I conti con Cat Stevens

16 Novembre 2014

Non potevo più nascondermi. Dopo il concerto dell’11 novembre e dopo che, addirittura, due o tre dei miei venticinque fedelissimi lettori avevano avanzato richiesta formale, direi quasi imperativa, di una relazione.

Cat Stevens - Ticket

Allora. La storia di Cat Stevens probabilmente la conoscete. Ve la riassumo molto sinteticamente: Cat (nato Steven Demetre Georgiou nel 1948) è figlio di un ristoratore greco del West End e gode quindi di un favorevole punto di osservazione sulla scena musicale inglese, oltre che di un certo talento.

Per questo, da giovanissimo, spara fuori in rapida successione un paio di dischi, Matthew and Son (non Father, Matthew) e New Masters, carini, piacevoli, premiati da un certo successo (lì in mezzo c’è anche The First Cut Is the Deepest).

Poi si ammala (quasi muore) di tubercolosi e passa 18 mesi tra ospedale e convalescenza. Quando esce è un’altra persona: molto più profonda, spirituale, intimista, direi anche complicata. Nel 1970 inizia la “vera” carriera musicale di Cat Stevens, che si concluderà nel 1978. Poi la conversione all’Islam, il nuovo nome Yusuf Islam, quasi trent’anni di silenzio, il ritorno, tre nuovi album, il tour del 2014.

Quello di cui vorrei parlarvi, però, è del mio rapporto con Cat Stevens.

Succede così: quando ho circa dieci anni una parente, priva di ogni informazione sulle tendenze musicali in atto, vuole farmi un regalo. Va alle Messaggerie Musicali e dice: “So che gli è piaciuto molto Jesus Christ Superstar”. Il commesso – in un gesto di sincretismo religioso che cambia la mia vita – le consegna senza esitazione una copia di un bel disco blu opaco con lettere in oro: Buddha and the Chocolate Box.

Cat Stevens - Buddha and the Chocolate Box

(Inciso. Perché a otto/nove anni mi era piaciuto moltissimo Jesus Christ Superstar? A spanne direi: un potente mix di immagini forti, quasi morbose – del resto a quell’età hai già iniziato il catechismo e ti hanno già propinato un bel po’ di flagellazioni e crocifissioni –, belle canzoni abbastanza orecchiabili, il fascino loser di Ted Neeley, un’indole sensibile – anche troppo).

Morale: la frittata è fatta. Il passaggio diretto da Il Lungo, il Corto e il Pacioccone a Oh Very Young è troppo per chiunque, figurarsi per me, e le conseguenze si dispiegheranno per molti anni a venire.

Da quel momento cerco – con i ridottissimi mezzi finanziari di un poco più che bambino dell’epoca – di procurarmi tutti i dischi di Cat Stevens: pertanto vado sia all’indietro, dove – ancora non lo so – stanno i capolavori prodotti dal 1970 al 1975, ma anche in avanti, acquistando più o meno in tempo reale gli ultimi tre – declinanti – dischi del Nostro, fino al 1978.

In questa ricerca del tutto casuale e non guidata (Internet, strano a dirsi, non mi è di alcun aiuto e intorno a me nessuno sembra capire granché di musica pop) il primo acquisto è Greatest Hits (quello che tutti hanno in casa, anche chi non ha lo stereo). Naturalmente non ho idea di che cosa voglia dire “Greatest Hits” e quando, curiosando in un grande negozio di dischi, scopro che esistono decine di album di artisti diversi intitolati Greatest Hits, la mia reazione immediata è di sdegno, quasi di dolore: perché hanno copiato il titolo di Cat? E perché nessuno lo ha impedito? (Naturalmente non sono nemmeno sfiorato dall’ipotesi che Cat abbia copiato altri).

Cat Stevens - Greatest Hits

Negli anni, quindi, colmo il gap: il bellissimo Mona Bone Jackon (1970), con Peter Gabriel (!) al flauto; poi i due capolavori riconosciuti: Tea For the Tillerman (1970, quello di Father and Son), e Teaser and the Firecat (1971); quindi Catch Bull at Four (1972, quello di Sitting), il misconosciuto Foreigner (1973, in cui Cat si avvicina addirittura al reggae, in grande anticipo sulle mode). Ma nel frattempo riesco più o meno a rendermi conto (chissà come) che stanno uscendo dischi nuovi, e li compro quasi in diretta: Izitso (1975), Numbers (1977, una strana fiaba fanta-numerologica) e infine Back to Earth, regalo di Natale del 1978, quando ho da poco iniziato il primo anno di liceo classico e il gioco inizia a farsi serio.

Quale gioco? Ma quello dell’amore, ovviamente. Del corteggiamento, del successo, ma anche della delusione quasi cercata, quasi invocata, se serve a riempire muri, diari e lavagne di frasi che – secondo me – mi fanno apparire malinconicissimo e interessantissimo.

È qui che le nostre vite, la mia e quella di Cat, si intrecciano davvero. Che, nel bene e nel male, la sua influenza su di me diventa pari a quella di un familiare, di un amico, di un educatore. Perché come potete ben capire (e come forse saprete), presentarsi all’appuntamento con l’adolescenza sapendo suonare Father and Son, Moonshadow, Wild World ti cambia completamente il posizionamento, specie in un liceo molto piccolo e assai decentrato, dove la concorrenza è modesta: e basta un’”ora buca” (all’epoca assai frequente) per tirare fuori dapprima la classica Eko delle medie con la custodia floscia in finto jeans e poi una bella Ibanez acustica e prendere il centro del ring per non mollarlo più. Bei tempi, Cat, grazie: qualche bacetto l’ho sgraffignato anche grazie a te.

Cat Stevens - Tea For the Tillerman

Ma non è solo marketing. Il fratellone mi fornisce, per la prima volta, un repertorio di frasi che esprimono le mie sensazioni molto meglio di come saprei fare io. È una sensazione che negli anni si impara a conoscere e che – credo – ci fa amare l’arte e gli artisti. È la sensazione consolante di non essere soli a vivere certi piccoli grandi drammi e, anzi, di essere in compagnia dei migliori.

È “How can I tell you that I love you, I love you but I can’t think of right words to say – Whoever I’m with, I’m always talking to you, but I look and you’re not there”. Ah, cazzo, pensi: capita anche a te? Si, capita anche a Cat e prima ancora capitava (lo impareremo) anche a Giacomo:Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente / Terribile, ma caro / Dono del ciel”. Ma torniamo a noi.

(Qui il video di How Can I Tell You).

Perché se Cat Stevens ha fornito colonna sonora e commento fuori campo principalmente nel settore dei miei innamoramenti giovanili, il suo contributo si è fatto apprezzare anche in altre importanti produzioni del mio tumultuoso mondo affettivo.

A partire dal rapporto con il padre, ovviamente: ricordo bene che quando il mio, di padre, ebbe un grave infarto scoprii canticchiando in camera mia mentre i grandi parlavano con i dottori, che la frase “It’s not time to make a change, just relax take it easypoteva funzionare benissimo anche a parti invertite, da figlio a genitore, come una preghiera. Portò fortuna: non era il momento, in effetti. E ho potuto far leggere a mio padre il testo di Father (da Back to Earth, 1978), commuovendoci entrambi e restando in piedi in corridoio, un po’ in imbarazzo tutti e due: “Father oh father / Guide me if you can / Or give me the chance to follow you home / I am your son but I wish I knew you / When you were young / Were you lonely as a boy”. Che grande idea quell’immagine del padre giovane, ma non allegro e spensierato, bensì “lonely”: come probabilmente si sente lui (malgrado tutto il suo successo), come certamente mi sento io, come ci si sente quasi tutti da giovani.

Cat Stevens - Back to Earth

Così come ricordo la sensazione di stupore che provai quando chiesi una mano nella traduzione di Child for a Day (Izitso, 1977) alla mia professoressa di inglese delle medie e lei fu così colpita dal testo della canzone che mi chiese di scriverle autore e nome del disco perché avrebbe proposto alla scuola di acquistarlo, se gli esigui mezzi economici lo avessero consentito. Che tenerezza, prof Bacchilega (dovunque lei sia le mando un abbraccio): se vuole le registro io la cassetta. Ma, intanto, per la prima volta in vita mia ero io a segnalare qualcosa di interessante a un’insegnante.

E poi, e poi. E poi la voglia di conoscere, di allargare la visuale (“Well I left my happy home to see what I could find out”), le primissime, larvate suggestioni pacifiste e ambientaliste (Where Do the Children Play, King of Trees), la spiritualità e la religione: insomma, Cat è un valido punto di riferimento per una molteplicità di argomenti assai vicini al cuore di un adolescente.

Naturalmente tutto questo ha un prezzo. Perché Cat Stevens, il mio fratello maggiore putativo, è (era) un grandissimo poeta pop, ma anche un filino vittimista e – posso, Cat? – rompicoglioni.

Avete presente Lady D’Arbanville? Quando leggi “why do you sleep so still?” e “your heart seems so silent” e – a scanso di equivoci – “tho’ in your grave you lie”, pensi che lei sia morta, no? E invece lei, Patti, una bellissima modella di poco più giovane, lo aveva solo lasciato per un po’ per tentare la fortuna a New York (ed è tuttora viva e vegeta). Siamo solo nel 1970, cominciamo bene. La noterella un po’ vittimistica rimarrà una costante. Dice, in Maybe You’re Right (una delle mie canzoni preferite): “Now maybe you’re right and maybe you’re wrong”, cioè può darsi che tu abbia ragione, può darsi che tu abbia  torto. Molto fair ed equilibrato, no? Ma la frase successiva (e il tono, e quegli accordi, in particolare il Mi bemolle in un pezzo in Re, così inequivocabilmente polemico) non lascia dubbi: “But I ain’t gonna argue with you no more / I’ve done it for too long”. Ha ragione lui.

E lasciamo pure stare Wild World (1972), dedicata alla succitata D’Arbanville (“vai, vai, ma vedrai che sarà un casino”). Ce n’è per tutti. Da Hard Headed Woman, dove si lamenta di avere conosciuto un sacco di donne leggerine e volubili (“I know a lot of fancy dancers”: ma, scusa, perché ti metti con le modelle, allora? Non sarà perché ti piacciono molto carine?). Ed è curioso il fatto che nei concerti dell’epoca, presentando brani molto lacrimevoli fra cui la stessa Wild World, Cat affermi “it’s basically about me“, quasi a volerne stemperare il carico di risentimento.

Per finire, tuttavia, con Just Another Night (da Back to Earth, 1978), una vera antologia di lamentele: “You once rocked me in your world / You bought me my first shoes / I was just another lonely child / Oh and you were so amused”. E ancora: “Then you walked out and you cut me cold / Out on the road somewhere / Why it happened well i don’t know / And I still have no idea”. Una superstar di trent’anni, all’apice del successo, che non “ha idea” del perché lei lo abbia lasciato. Magari perché eri un po’ pesantino, no, Cat?

Come me. Non sto a portarvi le prove, ma chi mi conosce bene non potrà che essere d’accordo: un po’ “pesantino” e – posso? ma sì – rompicoglioni lo sono anch’io (e in passato ero molto peggio). Colpa di Cat Stevens, che con le sue canzoni ha reso così seducente l’arte del vittimismo? Un po’ sì. Anche se credo di averci messo una buona dose di predisposizione.

Come che sia, questo è Cat Stevens per me. Per questo, alla domanda “Come è stato il concerto?” ho preso tempo. Avrei potuto dire: grandissima emozione, belle canzoni, una band che mi è parsa parecchio legnosa rispetto alla meravigliosa ricchezza dinamica degli album storici. Ma la vera risposta, lo avrete capito, è un po’ più lunga.

p.s.: Il nome di questo blog, “I love everything”, è una citazione da Miles from Nowhere (da Tea for the Tillerman). Per dire.