Dieci Secondi - Anno 1, puntata 8

Robbie Robertson: Storyville

16 Aprile 2018

Dieci Secondi – Stagione 1, puntata 8

(Ascolta l’audio della puntata qui sotto)

Se pensiamo ai più grandi gruppi rock della storia, difficilmente ci verrà in mente ai primi posti il nome di The Band: eppure l’importanza di questa strana banda (appunto) di fuorilegge, che sembra uscita da un western di Sam Peckinpah, non sarà mai abbastanza celebrata. In breve: nei primi anni ’60 sono il gruppo di Ronnie Hawkins, una specie di Elvis minore; a metà degli anni ’60 accompagnano – e in parte determinano – la svolta elettrica di Bob Dylan, suonando con lui in studio e dal vivo; nel ’69 registrano due album fondamentali, che riconnettono l’America alle sue radici musicali; nel 1976 decidono di separarsi: a filmare il loro concerto d’addio un ragazzo italoamericano piuttosto sveglio, Martin Scorsese.

Insomma, attraverso questi cinque ragazzi, che – ironia della sorte – per quattro quindi sono canadesi, sembra incanalarsi tutto quanto di meglio si muove nella cultura americana degli anni ’60 e ’70. Ottimi strumentisti, arrangiatori raffinati, quasi tutti buoni cantanti, hanno tuttavia uno stile rilassato, quasi casuale: come se uno intonasse la canzone e gli altri la imparassero intanto che la suonano, come si fa tra amici. È questa, in fondo, la loro vera forza.

Ma soprattutto, la loro musica (e i loro testi) si riappropriano della tradizione americana: come se la British Invasion, la psichedelia, l’hard rock non ci fossero mai stati. La loro canzone simbolo affronta il tabù della guerra civile americana con gli occhi di un sudista. Il brano si chiama “The Night they Drove Old Dixie Down” (cioè “la notte in cui hanno abbattuto il vecchio Sud”, ed è una delle cose più belle composte in quegli anni: lo ascoltiamo proprio nella versione del loro concerto di addio del 1976, The Last Waltz.

Ascolto “The Night they Drove Old Dixie Down”.

Era “The Night they Drove Old Dixie Down“, originariamente sul secondo disco di The Band, ma qui nella versione dal vivo di The Last Waltz.

È la storia vista con gli occhi degli sconfitti. Il protagonista della canzone è Virgil Caine (Caine come Caino, un nome forse programmatico, un’amara ironia su chi sono i buoni e chi i cattivi), il contadino del Tennessee che racconta la guerra dal suo punto di vista. Il freddo, la fame, il lavoro duro nei campi, il fratello ammazzato, un senso di ingiustizia che non può svanire. Non ci sono giudizi. C’è la guerra, che lascia ferite profonde. Un atteggiamento che potrebbe sembrare revisionista e che invece è di una grande modernità: la guerra è guerra, la gente muore, le ragioni non sono mai così nitide.

Ma facciamo un lungo salto in avanti. Di undici anni, per la precisione.

E invece Robbie di cose da dire ne ha. Il suo album d’esordio, intitolato semplicemente col suo nome, rappresenta uno dei modi migliori in cui una gloria vivente possa riproporsi al pubblico. I temi, infatti, sono tipicamente quelli che possiamo aspettarci: l’America profonda, le storie di chi resta ai margini.

La musica, invece, è nuova. Innanzitutto Robertson si mette a fianco il migliore navigatore possibile, cioè il produttore Daniel Lanois, canadese come lui. E poi si fa accompagnare da ottimi musicisti e ospiti di prestigio, come gli U2 o Peter Gabriel: l’album, in questo modo, suona perfettamente contemporaneo, evitando tuttavia l’effetto stucchevole dei duetti alla “Pavarotti and friends”. Noi, comunque, ascoltiamo il primo singolo, dove di ospiti troppo famosi non ce ne sono, fatta eccezione per un grande Manu Katche alla batteria, che marchia a fuoco il brano con il suo rullante: “Showdown at Big Sky”.

Ascolto “Showdown at Big Sky”.

Era “Showdown at Big Sky”, il primo singolo estratto da Robbie Robertson, primo album solita del chitarrista della Band. E questo è Dieci Secondi, su Radio Popolare, il programma dedicato a dieci secondi album.

Nella Band, tre dei cinque musicisti si alternavano come cantanti solisti. Robbie Robertson era uno dei due a non cantare, pur essendo l’autore principale. La prima rivelazione, dunque, è qui: Robbie non è un grande vocalist, ma se la cava bene: un po’ adottando uno stile adatto alla sua voce, quasi parlato, e un po’ costruendo accuratamente un contesto sonoro che lo sostiene.

L’album va molto bene, ottiene eccellenti riscontri di critica e – per quanto non sia un prodotto ultra commerciale – anche di pubblico.

Robbie Robertson StoryvillePer il secondo album, che esce quattro anni dopo – sempre pochi rispetto agli undici del precedente – Robbie ha una grande idea: immergersi, fisicamente e musicalmente, nella città più feconda di tutta l’America musicale, dove tutto nasce e tutto – prima o poi – torna, dove si parla inglese, francese e africano: New Orleans. L’album, infatti, si chiama Storyville, come il vecchio quartiere della prostituzione. La lista degli ospiti è lunga: ma questa volta non sono superstar britanniche come Gabriel e gli U2, bensì glorie locali, note e meno note.

La dimostrazione migliore è la traccia numero tre dell’album, dove appaiono i fratelli Neville, Art alla voce e all’organo e Cyril alle percussioni, ma anche tanti altri musicisti locali di valore, come il bassista George Porter Jr, che prende il centro della scena dal primo istante. Il brano si chiama “Go back to your woods“. Tornatene nei tuoi boschi.

Ascolto “Go back to your woods “.

Era “Go back to your woods”, dal secondo album di Robbie Robertson, Storyville.

La lista dei collaboratori musicali, dicevamo, è lunga mezzo metro: ma l’impressione – più che quella di una parata di nomi di richiamo – è quella di un grande pentolone in cui sono messi a cuocere riso, carne, pesce, gamberi, verdure, spezie, ognuno dei quali porta il suo specifico sapore, come in una ricetta della Louisiana. Con una differenza, però: a sorvegliare il tutto c’è uno chef esigentissimo come Robbie Robertson. Uno che può aspettare anni prima di fare un disco e non si accontenta di risultati meno che perfetti.

Troppo perfetti? Forse. Forse una produzione un po’ meno levigata e un po’ più nel linguaggio atmosferico di Daniel Lanois o addirittura in quello apparentemente casuale e sdrucito della Band avrebbe reso questo album davvero un capolavoro senza tempo.

Ma tant’è. Siamo comunque dalle parti della grandissima musica: tanto che è davvero difficile scegliere un brano per proseguire questo ascolto. Andiamo allora con il cuore: a un certo punto sentirete un rullante suonato come un tamburo militare. Sappiate che lì dietro c’è Ginger Baker, il batterista dei Cream, cui abbiamo dedicato la quarta puntata di Dieci Secondi. Che cosa ci fa? E chi se ne importa. Ben trovato! Il brano è “Shake this town”.

Ascolto “Shake this town”.

Dieci secondi su Radio Popolare.Questa era “Shake this town”, da Storyville, lo splendido secondo album di Robbie Robertson.

Quando si parla di un personaggio eclettico come Robbie Robertson, il rischio è di tralasciare qualche aspetto importante. Come la lunga collaborazione con Martin Scorsese, nata ovviamente nel 1976 quando i due si conobbero per girare The Last Waltz: da allora, Robertson è stato il consulente musicale di moltissimi film di Scorsese, che è a sua volta un patito di musica rock e ha girato numerosi film musicali.

Un aspetto su cui invece non si può sorvolare è il crescente interesse di Robertson per i nativi americani e per le sue stesse radici Mohawk. Un interesse che sfocia in un album del 1994, che nasce come la colonna sonora di un documentario ma che – in buona parte – si può ascoltare anche come un lavoro musicale a se stante. L’album si chiama proprio “Music for the Native Americans” e per realizzarlo il chitarrista si è avvalso della collaborazione di musicisti e cantanti tradizionali.

“Non avete una possibilità contro le nostre preghiere / Non avete una possibilità contro il nostro amore / Hanno messo fuori legge la Ghost dance, ma noi vivremo ancora”. È una storia vera: la Ghost Dance era un rito religioso che nasceva dalla disperazione dei nativi americani; si diffuse così tanto che il governo americano ne ebbe paura e la represse con crescente violenza, fino al massacro di Wounded Knee. Ascoltiamo “Ghost Dance”.

Ascolto “Ghost Dance”.

Era “Ghost Dance”, dal terzo album solista di Robbie Robertson, “Music for the native Americans”, nel quale il chitarrista canadese fa i conti con la sua origine Mohawk. Se volete sapere tutto di questo grande personaggio, sappiate che nel 2016 è uscita la sua autobiografia, Testimony, insieme a un album antologico con lo stesso titolo.

Noi, per questa sera, abbiamo finito. L’appuntamento è per giovedì prossimo e per la puntata numero nove di “Dieci Secondi”. Parleremo di quello che è forse l’ultimo gruppo “classico” del rock. Gli R.E.M. o, per comodità, all’italiana, i REM.