Un disco all'anno: 1977

“Songs From the Wood”: una cartolina dall’Andersonshire

30 Maggio 2021

Quando vediamo un bel tramonto, stiamo in realtà osservando una cosa avvenuta otto minuti prima: la differenza è data dal tempo che la luce impiega per viaggiare nello spazio fino a noi. Un po’ come scoprire un grande album senza sapere che quell’album costituisce la fine di un ciclo, di un’età classica, e che pertanto ci arriva in ritardo.

“Songs From The Wood”, infatti, è stato il penultimo capitolo di una grande epopea, quella dei Jethro Tull al culmine del loro splendore. L’ultimo episodio sarà “Heavy Horses”, che con il precedente album sembra condividere la nostalgia per un passato più mitico che reale; a sigillare l’età dell’oro sarà il doppio live “Bursting Out”, del 1978, che immortala Ian Anderson e i suoi in una forma musicale e fisica smagliante. Poi verranno altri album a cui sono ovviamente molto legato, avendoli ascoltati in diretta, man mano che uscivano: buoni album sottovalutati come “Stormwatch” o piacevoli citazioni di un tempo che fu (macchiate dall’eccesso di tastiere elettroniche) come “Broadsword and the Beast”, o ritorni al classico folk-metal come “Rock Island” e “Catfish Rising”. Ma, accettiamolo, nel 1977 il più è fatto.

Nel suddetto 1977 io avevo scoperto, chissà come, una radio libera (come si diceva allora) che con grande originalità si chiamava Free Radio. E qui, mi pare nel primo pomeriggio, quando io tornavo da scuola, ma forse no, trasmetteva un tizio che con pari originalità si faceva chiamare Il Barba (immagino che avesse la barba). E se i miei ricordi sono corretti, a un certo punto su Free Radio annunciano con grande entusiasmo che è in arrivo il nuovo disco dei Jethro Tull e che sarà addirittura possibile ascoltarlo (tutto? un brano al giorno?) alla radio. Ecco: la scintilla fra me e quello che sarà per tutta la vita uno dei miei gruppi preferiti scocca in quel momento. Poi, come sempre finora (ma dal prossimo album si cambia!), sarà la solita corsa avanti e indietro nel tempo per riscoprire i capolavori passati e per accogliere le nuove uscite, che come ho detto non aggiungeranno molto al mito.

Songs from the Wood: Jethro Tull: Amazon.it: Musica

“Songs From The Wood” è un album divertente, playful, come lo ha definito lo stesso Anderson. È ambientato in una sorta di Inghilterra del passato, mitica (più che storica), pagana, abitata da creature leggendarie. E si apre con un vero proemio da epica classica, in cui l’autore dichiara i suoi intenti:

“Let me bring you songs from the wood: to make you feel much better than you could know. Dust you down from tip to toe. Show you how the garden grows. Hold you steady as you go. Join the chorus if you can: it’ll make of you an honest man”.

All’epoca, Ian Anderson – ormai una star di fama mondiale – come molte rockstar britanniche aveva scelto di andare a vivere in un’antica dimora di campagna, per la precisione una fattoria del XVI secolo nel Buckinghamshire. Qui aveva raccolto a piene mani l’ispirazione per il nuovo album, assorbendo le atmosfere rurali della sua proprietà e dei dintorni. L’Anderson gentiluomo di campagna è certamente innamorato di quello che vede dalle finestre di casa e forse la sua nostalgia per il passato è in parte genuina: il cantante e flautista è una sorta di ambientalista ante litteram (lo ribadirà anche nel successivo album, “Heavy Horses”, ma anche in “Stormwatch”). Inoltre se pensiamo che nel 1976, quando l’album era in lavorazione, l’Inghilterra era spazzata dal vento del punk e gli ex-innovatori si trovavano improvvisamente spinti in una posizione di retroguardia, si può pensare che il tuffo nel passato potesse sembrare un’opzione opportuna per evitare lo scontro frontale con i nuovi barbari della musica.

Thick as a Brick - Wikipedia

Ma al tempo stesso lo sguardo di Ian Anderson è sempre ironico, teatrale, playful, appunto: basta pensare al capolavoro di “Thick As A Brick”, il finto poema del (fittizio) bambino prodigio Gerald Bostock, escluso ingiustamente da un premio letterario, e al finto “St. Cleve Chronicle”, il pettegolo quotidiano di provincia che avvolge il disco – completo di articoli scritti con ironia e gusto dell’assurdo – per capire che razza di giocoliere e di provocatore sia Ian Anderson, sempre in equilibrio (su una gamba sola) fra adesione sentimentale e parodia di quella stessa adesione. Le canzoni di questo album ci renderanno “honest men”, ma al tempo stesso sono “kitchen prose and gutter rhymes”, prosa da cucina e rime da fogna.

Insomma, Ian Anderson e i suoi Jethro Tull scherzano e fanno terribilmente sul serio. Il che – se ci pensate – è una caratteristica dei geni: “Il grande dittatore” è un film comico o drammatico? E quando Woody Allen nella sua autobiografia si definisce come una specie di fallito fortunato che non sa usare una macchina da presa, a parte – testuale – “togliere il tappo dall’obiettivo”, scherza o fa sul serio? E i suoi film sono solo comici o esplorano continuamente il senso della vita? E un grande intellettuale come Umberto Eco non ha forse giocato per tutta la vita con le parole, facendoci ridere proprio burlandosi della cosa più sacra, la letteratura (consiglio vivamente la sezioni “Dolenti declinare” all’interno del primo “Diario Minimo”, in cui Eco immagina le lettere di rifiuto da parte della casa editrice ai più grandi capolavori della letteratura) e poi erigendo il monumento allo spirito stesso della commedia con “Il Nome Della Rosa”?

DIARIO MINIMO - UMBERTO ECO | eBay

I grandi artisti, dunque, si prendono bonariamente gioco di noi, ci depistano e ci rimettono sulla retta via: quando Ian Anderson si rivolge a “Jack-in-the-green” forse non crede davvero nell’esistenza di un folletto che si prende cura della natura; e tuttavia quando gli chiede

“Does the green still run deep in your heart? Or will these changing times, motorways, powerlines, keep us apart? Well, I don’t think so — I saw some grass growing through the pavements today”

esprime il suo ambientalismo antimoderno (che oggi sarebbe ipermoderno) con profonda partecipazione, e “Jack” diventa quasi un amico – mite e saggio – cui è toccato un incarico gravoso, più grande di lui. “Hunting girl” è una love story piuttosto audace con una bellissima amazzone che potrebbe essere avvenuta nell’antichità ma anche essere autobiografica (per quel che ne sappiamo da Julian Fellowes, le giovani inglesi di alto lignaggio vagano a cavallo per le campagne ancora oggi). Così come “Ring out, solstice bells” è un omaggio a un passato pagano in cui si festeggiava il solstizio e non il Natale, ma riflette certamente una visione del mondo pienamente andersoniana in cui le feste esistono e si celebrano più perché sono intrecciate con il ritmo della vita e della natura, che per i dettami di una religione organizzata (l’intero “Aqualung“, invero, è una satira piuttosto aspra contro il cristianesimo).

Insomma, si potrebbe andare avanti a lungo, ma il succo è questo: Ian Anderson sa di non poter vivere affatto nel passato (per sua fortuna, visto il successo che la modernità gli ha portato), ma al tempo stesso ne celebra alcuni valori che non gli dispiacciono affatto. E, ancora, di questa contraddizione vede lui stesso il lato ironico e lo celebra: con le foto di copertina, con il suo abbigliamento, con le movenze giullaresche e gli sguardi spiritati che esibisce nei concerti, insieme a uno humour molto British.

E la musica? La musica è la quintessenza dei Jethro Tull: ogni canzone è una mini-suite piena di variazioni, ma il risultato non è mai inutilmente complicato o cervellotico. I Jethro Tull non sono un gruppo progressive: del progressive non hanno l’intellettualismo e la presunzione, e forse neppure il retroterra da ex-musicisti classici. Le finezze e le complicazioni musicali, i cambi di ritmo, di tempo e di tonalità sono originali e mai pedanti, sempre al servizio delle canzoni e della melodia, qui più che mai. I Jethro Tull sono un gruppo folk-rock nel quale la nozione di rock si spinge molto più in là rispetto ai folk-rockers inglesi loro contemporanei. O, per dirla con le parole del fondatore, sono “un gruppo heavy metal con i mandolini”. Qui, tuttavia, in confronto ad altri album del gruppo, la strumentazione è più acustica, coerentemente con l’ambientazione: basso e batteria, suonati meravigliosamente da John Glascock e da Barriemore Barlow (un nome che è già una fiaba inglese) costruiscono le fondamenta dell’edificio, ma sopra di loro ci sono soprattutto chitarre acustiche, il flauto, le voci, con la chitarra elettrica di Martin Lancelot Barre (per quanto anche lui, col nome…) che qui è più un colore pennellato sulle pareti che un oggetto tridimensionale come nel riff di “Aqualung” senza il quale non esisterebbe alcuna “Aqualung”.

Ma l’abbiamo fatta un po’ lunga: “Songs From The Wood” è un album delizioso ancora oggi, pieno di piccoli anfratti dove cercare cose meravigliose, proprio come un bosco inglese abitato da simpatici folletti e di sensuali hunting girls. È un disco perfetto da tenere in sottofondo mentre si legge Tolkien, come ci confidammo io e un coltissimo (allora e ora) compagno di liceo tanti anni fa. È un disco ideale per conoscere i Jethro Tull: volutamente fuori tempo e per questo senza tempo.