un disco all'anno: 1973

“Jesus Christ Superstar”: Gesù, che musica

7 Maggio 2017

Tutti conoscono “Jesus Christ Superstar“. Non tutti, forse, ne conoscono invece la storia artistica. In sintesi: due pazzi visionari, il compositore Andrew Lloyd Webber (21 anni) e il paroliere Tim Rice (25) decidono di produrre una grande opera rock dedicata al più affascinante personaggio letterario di tutti i tempi: un fricchettone controverso ma carismatico, oggetto di alterni sentimenti di fanatismo e odio, un po’ come certi politici di oggi.

AndrewLloydWebber_TimRice

L’idea dei due sarebbe di produrre un musical: tuttavia per mettere in scena l’intrigante trappolone occorre un sacco di soldi. Di qui l’idea, apparentemente ovvia (dopo, come tutte le cose geniali): incidere un concept album – che praticamente contiene già tutta l’opera – come una sorta di demo dell’allestimento teatrale cui affidare le speranze di fund raising. Viene quindi ingaggiato un serissimo cast di musicisti e cantanti, il cui nome di spicco è Ian Gillan (sì, quel Ian Gillan, che proprio negli stessi mesi diventava il cantante dei Deep Purple) nel ruolo di JC, l’affascinante loser al centro della storia.

IanGillanJesusChristSuperstar

Esiste, quindi, un primo “Jesus Christ Superstar”, un “mark 1“, che è un concept album del 1970, la cui copertina non è quella azzurrina con le scene del film che siamo abituati a vedere, ma una cosa colorata un po’ tipo un caleidoscopio visto controluce, il cui retro offre un compendio di arte sacra: 16 rappresentazioni del volto di Cristo fra le quali – tra Giotto, Leonardo e Piero della Francesca – trovano spazio le opere di Nicholas, Trevor, Julie e Gary, quattro alunni di una scuola londinese.

JesusChristSuperstarAlbumFacceJesusChristSuperstar

Se come me (e come molti miei coetanei, o giù di lì) avete in mente pressoché a memoria la colonna sonora del film rimarrete impressionati per l’aderenza di questa rispetto all’album. Mi spiego. Nei tre anni trascorsi fra l’album e il film, le occasioni per un “rework“, per rivedere musica e testi, non saranno certo mancate: per scelte artistiche, ripensamenti, opportunità sceniche, pressioni della produzione, dei media, della chiesa. E, anzi, le modifiche ci sono effettivamente state. Ma dall’ascolto dell’album primigenio si evince che i due giovanissimi compositori avevano prodotto un lavoro sostanzialmente definitivo, con una lucidità che non può non colpire. Il disco del ’70, insomma, contiene già il soundtrack del ’73 (passando per il musical), incluso il rumore delle frustate nella straziante scena della flagellazione (altro che il christian-porn di Mel Gibson).

Come che sia, il disco ha successo, soprattutto negli Stati Uniti. E così può finalmente partire la fase due, quella teatrale: che si apre proprio a Broadway, non proprio nel migliore dei modi (“la peggiore notte della mia vita”, secondo Lloyd Webber), ma che successivamente riprende per il verso giusto a Londra, nel 1972, senza Gillan, che chiedeva un compenso troppo alto, dovendo indennizzare i Deep Purple per l’inevitabile stop ai concerti. Non mi soffermo sul fenomeno teatrale di Jesus Christ Superstar: secondo la pagina Facebook ufficiale, la produzione originale inglese è stata rappresentata ininterrottamente per otto anni, per un totale di 3.350 spettacoli. Da allora, è andata in scena per 40 anni in 42 Paesi, per un numero totale di repliche che secondo me non conosce nessuno, ma che ha contribuito a fare di Andrew Lloyd Webber (nel frattempo nominato Barone dalla regina Elisabetta II e decorato con un trattino nel cognome che adesso è Lloyd-Webber: ah, gli inglesi, che meraviglia!) uno degli uomini più ricchi del Regno Unito.

JesusChristSuperstarPalme

Ma siamo onesti. Tutta questa bella roba un po’ chic di Ian Gillan e dintorni l’abbiamo scoperta dopo. La folgorazione per me è avvenuta poco dopo l’uscita del film, che è del 1973: i miei primi ricordi, infatti, sono relativi all’anno della quinta elementare (1975) e a un compito svolto nell’ora di religione in epoca pasquale in cui, nel rappresentare il tema della domenica delle Palme, mi ero ispirato a una delle fotografie presenti sull’album (vorrei avere quel quaderno per dimostrarvi come, malgrado disegnassi davvero male, quella scenetta non fosse malvagia: trattavasi di miracolo?). Come sia entrato nella mia vita, lo posso ipotizzare: merito della solita sorella maggiore (o del cognato)? Assai probabile. Quello che è certo, che quella musica e quelle immagini hanno influenzato profondamente la mia estetica e la mia sensibilità – almeno quanto quelle del coevo American Graffiti, altra dirompente combinazione di musica e immagini, fatta per sconquassare l’esistenza di un adolescente – innescando non certo una svolta mistica (come capitato ad altri) ma almeno un mini filone musical-religioso che mi avrebbe involontariamente condotto – via Buddha – a scoprire la mia più grande passione adolescenziale (insieme al basket), cioè Cat Stevens.

Cat Stevens - Buddha and the Chocolate Box

Che dire, insomma, di quella musica? È facile, adesso, ravvisarvi una grandiosa summa di generi musicali allora in voga, dal jazz-rock di “Heaven On Their Minds”, il primo brano cantato da Giuda, alla “risposta” di Gesù (Ted Neeley, ancora in attività) un soul-funk trainato dall’Hammond, al rock mid-tempo di “Strange Thing Mistifying” in cui i due vengono a contatto, al pop inglese alla Elton John (che è già teatrale di suo), alle ballate folk, tipicamente i momenti dominati da Maria Maddalena-Yvonne Elliman e in particolare la splendida e celeberrima “I Don’t Know How To Love Him”, fino ai grandiosi anthem (“Hosanna”, “Superstar”) che tutti ricordano. Logicamente l’album (o il film, come volete) è pieno di momenti in cui – coerentemente con i dettami del teatro musicale – la musica è al servizio della narrazione e quindi i brani hanno anche lo scopo di far procedere la storia, di far dialogare i protagonisti, di rivelare le psicologie e le finalità di ognuno. Eppure anche in questi momenti più funzionali, anche in questi quasi-recitativi, la melodia c’è, il ritornello riappare all’improvviso come un fiume carsico e la possibilità di cantarlo sotto la doccia resta intatta.

JesusChristSuperstarOST

Facile, dicevo, svolgere un’analisi “adulta”. Ma quello che conta è che la magia di questo disco era perfettamente accessibile a un bambino di dieci anni: merito della vicenda, certo, sempre drammatica e affascinante comunque la si pensi sull’esistenza di Dio, merito delle immagini, degli attori, del timbro tenorile di Ted Neeley, tutto fragilità e dramma umano. Fatto sta che “Jesus Christ Superstar” resta un album bellissimo, che si ascolta sempre con immenso piacere, in attesa che Telemontecarlo programmi il film il giorno di Pasqua.