Dieci Secondi - Anno 1, puntata 9

R.E.M.: Reckoning

17 Aprile 2018

Siamo alla penultima puntata, la numero nove; e la dedichiamo a uno dei pochi gruppi rock che – pur essendo nati dopo la grande stagione degli anni 60 e 70 – possa dirsi classico. Classico per la carriera, per l’influenza, per la riconoscibilità, per la coerenza e l’integrità.

(ascolta l’audio della puntata qui sotto)

Eppure, a volerla vedere, le premesse per un’esistenza da meteora che magari, sì, azzecca un brano che al massimo entra nel cd antologico di una radio locale, c’erano tutte. Perché? I musicisti non sono virtuosi, anzi, stanno praticamente imparando a suonare in diretta. I testi delle canzoni non si capiscono bene e con ogni probabilità non significano granché e sono più che altro dei riempitivi per la musica. E poi quel nome, Rapid Eye Movement, scelto a caso da un’enciclopedia, intellettuale ad ogni costo. Proprio non ci siamo.

E invece. E invece questi quattro ragazzi di Athens, una città universitaria della Georgia fino ad allora poco nota, hanno qualcosa in più. È il grande mistero dell’arte: prendi elementi già noti, combinali in modo nuovo e otterrai il capolavoro. Su quegli elementi “già noti”, nel caso degli R.e.m. (ma noi d’ora in avanti li chiameremo Rem, per comodità) sono state scritte tante pagine: c’è la chitarra Rickenbaker dei Byrds, il post-punk inglese, ci sono i Velvet Underground, Patti Smith, un po’ di Glam Rock. Sarà: ma loro – in breve – diventeranno i Rem.

In Italia i più attenti li scoprono attraverso il video di South Central Rain. Ma quello era il secondo disco. Ci arriveremo fra poco: prima dobbiamo fare un passo indietro. Perché Michael Stipe, Peter Buck, Mike Mills e Bill Berry – dopo un singolo e un mini-album – esordiscono con un album nel 1983, intitolato “Murmur”, mormorio. E noi ascoltiamo il primo singolo, da cui tutto è partito: un titolo che oggi suona quanto mai attuale: radio Europa libera, cioè “Radio Free Europe”.

Ascolto “Radio Free Europe”.

Era “Radio Free Europe“, dal primo album dei Rem, Murmur.

È il primo brano del gruppo, scritto nel 1981, e ha ancora qualche radice nel post-punk, soprattutto in quella batteria così squadrata: ma lo stile dei Rem è in costruzione, e il resto dell’album, composto nei due anni successivi, lascia intuire quello che arriverà di lì a poco. La voce di Michael Stipe, già protagonista, la chitarra jingle-jangle di Pete Buck, lontana da qualsiasi idea di virtuosismo, e il basso di Mike Mills, vero protagonista melodico della musica dei Rem con le sue linee raffinate e originali.

Intanto, per la rivista Rolling Stone Murmur – sorpresa – è l’album dell’anno: superando rivali come Thriller di Michael Jackson, War degli U2 e Sinchronicity dei Police. Che per degli studenti di Athens, Georgia, non è male.

Reckoning - RemRecensioni così positive possono anche nuocere: riusciranno i nostri eroi a vincere il peso dell’aspettativa? La risposta arriva a un anno di distanza: nell’aprile del 1984 esce il secondo album, intitolato Reckoning, che vuol dire calcolo, classificazione, ma anche resa dei conti. I Rem hanno composto molte canzoni (addirittura a un certo punto si parla di pubblicare un album doppio), hanno suonato dal vivo, hanno viaggiato. In un certo senso, si potrebbe dire che hanno usato quest’anno per diventare i Rem.

Partiamo, allora, dal primo brano, che rappresenta alla perfezione questa trasformazione: la strofa è un po’ spigolosa, spiazzante, verrebbe da dire più inglese; mentre il ritornello è caldo, melodico, americano. E quella dei ritornelli, sempre risolutivi, contagiosi, orecchiabili, sarà un’arte in cui i Rem eccelleranno. Ascoltiamo, allora, il primo brano di Reckoning: Harborcoat.

Ascolto Harborcoat “.

Era “Harborcoat”, il primo singolo estratto da Reckoning, secondo album dei Rem. E questo è Dieci Secondi, su Radio Popolare, il programma dedicato a dieci secondi album.

Nel brano che abbiamo appena sentito, emerge un’altra qualità inconfondibile dei Rem, cioè il ruolo importantissimo di Mike Mills: non solo grande bassista, ma seconda voce che in realtà è una “seconda prima voce”. I suoi controcanti, cioè, sono canzoni nella canzone, con melodie e talvolta con testi diversi da quelli cantati da Michael Stipe, registrati per di più in modo da non risultare schiacciati sullo sfondo bensì in primo piano, eppure senza coprire la voce di Stipe.

Ma non nascondiamoci: siamo arrivati al punto. Il punto in cui i Rem escono allo scoperto. Il punto è il terzo brano – nonché primo singolo – di questo album. Un brano dal testo quasi incomprensibile: in parte perché Stipe ha una pronuncia poco chiara (forse perché è del Sud, forse per un ermetismo voluto), in parte perché le parole stesse sembrano assemblate con una specie di “cut & paste”, prese da altre fonti, scelte per il loro potere evocativo, per il suono, per la metrica, più che per il loro significato.

Fatto sta che questo, con il suo ritornello di una parola (“Sorry”) è il brano perfetto: ritmo, melodia, arrangiamento, gli stessi testi. C’è un uragano nel Sud, gli alberi si piegano, le linee telefoniche cadono, le città sono allagate. Ma ci sono anche ragazze senza un sogno, oceani che cantano, fiumi di suggestione. Insomma: “South Central Rain”.

Ascolto “ South Central Rain”.

Era ” South Central Rain“, dal secondo album dei Rem, Reckoning.

Ed eccoli qui i veri Rem, con tutti gli elementi disposti alla perfezione, a partire dalla chitarra squillante di Pete Buck, la voce magica di Michael Stipe, il controcanto di Mike Mills che entra nella terza strofa. Sono i Rem che – nel 1996 – firmeranno con la Warner il più grande contratto discografico della storia fino a quel momento: 80 milioni di dollari per cinque album, senza cambiare di una virgola il loro atteggiamento verso la vita, la musica, la loro città. Il più bel complimento glie lo fa Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, in una celebre intervista del 94 a Rolling Stone: “Non so come fanno. – dice – Sono i più grandi: hanno gestito il loro successo come dei santi, e continuano a fare grande musica”.

“Come dei santi”. Il rapporto fra Michael Stipe e Kurt Cobain è a dir poco affascinante. I due si conoscevano bene, si stimavano: addirittura, Stipe provò a coinvolgere Cobain in un progetto musicale col solo scopo di sottrarlo alla spirale di autodistruzione in cui era entrato, un po’ come Pete Townshend fece con Clapton negli anni ’70, con maggior fortuna. Stipe gli mandò un autista e un biglietto aereo. Chissà che cosa sarebbe venuto fuori da una simile collaborazione, da un duetto fra i due padrini del rock alternativo americano, anche un solo brano acustico. Invece niente, le batterie di Kurt Cobain erano ormai scariche: l’autista attese dieci ore nel parcheggio e lui non si mosse da casa.

Noi, però, torniamo un attimo indietro agli anni ’80 e a Reckoning, il secondo album dei Rem. E lo facciamo ascoltando un terzo brano, il secondo singolo tratto dall’album: è un pezzo semplice e diretto, sia nei testi che nella musica. Scritto dal bassista Mike Mills, parla della più classiche delle storie d’amore: lui ha conosciuto lei all’università, ma i genitori di lei le hanno imposto di tornare immediatamente a casa, a Rockville, nel Maryland. E lui che cosa può dire? Non andarci. “Don’t go back to Rockville”.

Ascolto “Don’t go back to Rockville “.

Dieci secondi su Radio Popolare.Questa era “Don’t go back to Rockville”, da Reckoning, il secondo album dei Rem.

Un brano dallo stile decisamente country (a parte la strana intro che sembra un pezzo funky suonato da dei principianti), che in qualche modo apre la strada al movimento alt/folk, Americana o come lo vogliamo chiamare: senza, è difficile immaginare una band come i Jayhawks che qualche anno più tardi, negli anni ’90, saranno i campioni di questo genere musicale.

È un secondo album, lo abbiamo detto, che prepara i Rem a essere i Rem, cioè il più importante gruppo rock del mondo per una trentina d’anni. La loro carriera si concluderà ufficialmente nel 2011 con l’album “Collapse into now”: 15 album in studio, molti dei quali capolavori, altri meno riusciti, ma tutti onesti fino in fondo. Così come onesta è stata la scelta di fermarsi: “Un saggio una volta disse che la bravura nell’andare a una festa consiste nel capire quando è il momento di andarsene”, ha scritto Michael Stipe nel comunicato che annunciava la chiusura della più straordinaria officina del rock contemporaneo.

Del resto, lo aveva detto Kurt Cobain: “Sono dei santi”. E allora per chiudere questa puntata ci facciamo guidare dal leader dei Nirvana. Che, prima di togliersi la vita, ascoltò proprio un disco dei Rem, uno dei loro maggiori successi, “Automatic for the people”, e in particolare – a quando dichiarò la stessa moglie di Kurt, Courtney Love – una canzone: una canzone che parla del dolore, ma che invita a farsi coraggio, ad aiutarsi reciprocamente. “Hold on”, tieni duro, ripete per ben sei volte Michael Stipe alla fine del brano. Il brano che si chiama: “Everybody Hurts”.

Ascolto “ Everybody Hurts “. 5’14” (sfumare a partire da 4’20”)

Era ” Everybody Hurts “, da “Automatic for the people”, del 1992, uno degli album dei Rem di maggiore successo con i suoi 18 milioni di copie vendute. I Rem rimangono un fenomeno quasi senza eguali nella scena musicale: un gruppo sostanzialmente indifferente alle mode, capace di rimanere indipendente e alternativo nell’ispirazione eppure di avere un successo commerciale enorme. Un gruppo che ci mancherà.

Noi, per questa sera, abbiamo finito. L’appuntamento è per giovedì prossimo e per la decima – e quindi ultima – puntata di “Dieci Secondi”. Chiuderemo in bellezza con un gruppo che rappresenta un compendio della storia del rock: i Traveling Wilburys. Tranquilli: se vi sembra di non conoscerli, sappiate solo che due dei membri si chiamano George Harrison e Bob Dylan.